Dio non è un tappabuchi. Liturgie sacre e profane in tempo di pandemia

Mario Campli
Piazza San Pietro Covid-19 Coronavirus Papa Messa Pagina21

Alcuni amici mi hanno chiesto come io considero e vivo questa faticosa esperienza di aggressione di un virus sconosciuto, con un disorientamento anche della psiche e della mente di così vasta portata; me lo hanno chiesto, anche considerando la mia fede cristiana. Ad essere sincero, sto vivendo questo tempo con sentimenti molteplici, tra in-difesa e tensione; restistenza e resa, potrei dire, anch’io.  Facendo letture e pensieri.

Ho letto, ad esempio: «La pandemia sta risvegliando il senso del sacro e il bisogno di affidamento al divino […] Una delle immagini più potenti delle ultime settimane è quella che ritrae papa Francesco in pellegrinaggio solitario verso san Marcello al Corso, dove è andato ad implorare il Crocifisso miracoloso di fermare con la mano la pandemia» (così Mattia Ferraresi, Il Foglio).

Di per sé non è una cosa nuova: da secoli le pratiche religiose (e le istituzioni connesse) hanno reagito ai «mali del mondo» (cataclismi, terremoti, peste, colera, morte) sempre con manifestazioni e tendenze di: punizioni, colpa e anche silenzio, preghiera. Poi, a seconda dei tempi: processioni, autoflagellazioni, apologetica ed omiletica, e liturgie: un insieme di coreografie e scenografie di varia e diversa sostanza. É, appunto, un insieme, dove c’è un pò di tutto, e forse ha fatto bene Ferraresi ad evocare il concetto/realtà del sacro. Nei vangeli – che come è noto non sono opere accademiche, ma narrazioni, ev-angelo/buona-notizia, incontriamo questa problematica: «Passando vide un uomo, che era cieco fin dalla nascita. I suoi discepoli lo interrogarono, dicendo: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco? Gesù rispose: né lui ha peccato, né i suoi genitori; ma è così, affinché le opere di Dio siano manifestate in lui».

Di fronte a questo insieme, la reazione di un’alzata di spalle è legittima, e persino utile. Si può anche fermarsi un po’ e riflettere; e, separato il grano dal lòglio, incrociare altre letture e pensieri, come quelli di Dietrich Bonhoeffer (di cui il 9 aprile abbiamo contato i 75 anni dalla uccisone per impiccagione da parte del potere statale nazista nel 1945), il quale nelle «Lettere dal carcere» all’amico Eberhard Bethge, scrive: «Mi è apparso nuovamente chiaro che non è possibile far comparire Dio come il tappabuchi dei nostri vuoti di conoscenza […] Dio non è un tappabuchi: non bisogna riconoscerlo soltanto al momento in cui siamo allo stremo delle risorse, ma nel pieno della vita».

Ferraresi, infatti, continua la sua riflessione: «La mentalità secolarizzata tende a concepire la preghiera come atto sciocco […] Il matrimonio della dimensione sociale e personale nell’esperienza religiosa non è mai stato tanto attuale quanto in questo momento in cui i due elementi vivono, anche nell’ambito della secolarizzazione, un momento strano e contraddittorio».

A ben riflettere preghiera è parola/concetto più ricco: è pensare, meditare, ascoltarsi; un atteggiamento mentale che rientra a pieno titolo nella trascendenza orizzontale della storia, e non è affatto appannaggio delle religioni, ma è ben presente, in varie forme, nelle culture dell’umanità.

E, meditando e leggendo, ho potuto costatare che la parolina, piccola piccola, che domina questo nostro tempo è «Pan», Tutto. Pandemia, è la unione di due parole: tutto/il popolo; anche Pandemonio è l’unione di due parole: tutti/i demoni. Sarà per questo che in questi tempi nostri, diciamo secolarizzati, incrociamo anche altro: chiamiamolo religioni senza dio o religione-natura.

Eccone alcune espressioni: «La pandemia è un ultimatum naturale»; «due mesi di abbassamento delle quantità di polveri sottili hanno salvato la vita a quattro mila bambini di età inferiore ai cinque anni e a 73 mila adulti di età superiore ai settanta» (copyright di Marshal Burke del dipartimento delle scienze del sistema terrestre di Stanford); «i polmoni del mondo respirano già più facilmente grazie al crollo della produzione industriale» (copyright dello storico inglese Peter Frankopan); «chi può dire che questa pandemia non fornisca una svolta? Un raggio di sole e speranza in un momento difficile, sta succedendo qualcosa di strano, non solo la malattia e la morte che percorrono il pianeta, qualcos’altro è in corso: in Cina e in Italia l’aria è ora straordinariamente pulita» (copyright di Meehan Crist della Columbia University); «la natura ci invia un messaggio, stiamo assistendo ad un cambio di rotta dell’umanità» (copyright del già ministro dell’ambiente francese Nicolas Hulot). E quì, l’alzata di spalle non è facile. Perché?

Perché – e lo dico da credente – mandare a quel paese il padreterno e i suoi sacerdoti è facilissimo; ma avere a che fare con il cervello degli umani è molto complicato.  A reagire ci ha provato qualche uomo di buona volontà: «sacralizare la natura, prenderla a bussola, farne un modello morale e politico, è semplicemente disastroso», ha detto il filosofo francese Luc Ferry. «L’ecologismo ricicla la peste», ha scritto sul Point Kamel Daoud. Poi ci sono anche i filolosofi agnostici (non posso e non voglio dire «laici» per non manomettere questo termine di qualità e perché lo sono anch’io): «il virus è rivoluzionario, impedisce la privatizzazione e provoca un crollo del mercato azionario» (copyright di un vecchio arnese staliniano Edwy Plenel, fondatore di Mediapart). Non poteva mancare il filosofo sloveno Slavoj Zizek: «il coronavirus dà nuova possibilità al comunismo»; «una sorta di prova generale del crollo di un modello che ha trovato i suoi limiti (Noël Mamère sul Le Monde). Giulio Meotti, su il Foglio, chiosa questa carrellata, della quale gli sono grato, con: «continueranno ad annunziare la fine dei tempi, almeno fino a quando a finire a pancia sotto non sarà uno di loro». Ma, confesso che, passata la stizza, resta l’amaro in bocca e anche qualcosa di più. E la parola che può aiutarci è quel: «Annunziare la fine dei tempi».

Da sempre – ma in certi momenti della storia con particolare virulenza – si rendono manifesti approcci mentali, linguaggi e filosofie della storia che – siano di ordine religioso, siano di ordine agnostico o ateistico – formulano, gridano e credono la fine dei tempie/o la fine della storia. Sono atteggiamenti complessi da prendere con serietà, se non altro perché – e questo nostro «tempo politico» è uno di essi – in alcuni momenti della storia e della vita dei popoli e delle democrazie (la seconda parte della parola pan-demia) i millenaristi e gli apocalittici inglobano o si confondono (pandemonio) con i populismi e i vari estremismi. Mobilissimi e cangianti, come Covid 19, per cui: ieri erano tutti no-vax e oggi agognano il vaccino salvifico.

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