Economia dell’imperduto (la ballata di Angelo)

Il turismo è davvero l’ultima risorsa per l’Appennino d’Italia?

Pier Giorgio Ardeni

In questa Italia bella e perduta, da un luogo sui monti d’Abruzzo in quelle aree interne che il governo ora vorrebbe lasciare a sé stesse, capita d’imbattersi nella realtà, a volte di sogno, dei piccoli borghi, che tanto fanno oggi titolo nei programmi di marketing territoriale delle riviste e delle agenzie del turismo. Il più delle volte, come risulta, quei borghi altro non sono che antiche concentrazioni urbane di piccola dimensione, sorte per dare dimora ai popoli del contado, asserragliati attorno al piccolo castello o alla chiesa per difendersi dai briganti. Sono paesaggi noti, per noi figli di questa terra, che non smettono mai d’incantarci come di ricordarci come la vita, un tempo, fosse misera e dura, per i più.

La terra d’Abruzzo è ricca di valli che si inerpicano dal mare verso gli alti monti e poi per lunghi tratti li accarezzano, contornandoli. Tra i due massicci del Gran Sasso e della Maiella, l’uno come un orso maschio che guarda verso la sua femmina, vi sono villaggi appesi come caciocavalli alle rocce o borghetti dall’aura medievale, Pacentro, Roccacaramanico, Rocca Calascio, o i tanti eremi e abbazie, oggi mete turistiche. Ma ovunque, nella natura ancora in apparenza preservata, si legge ancora presente l’orma di un passato che qui è stato magro e duro, lungo i secoli. Una terra fuori dalle rotte importanti, di rado attraversata dalle milizie, per lo più rimasta sepolta nelle sue condizioni primordiali, abitata da pastori, su per i monti, e contadini, nel fondo delle valli, sotto il giogo dei tanti signorotti che ne hanno segnato appena il paesaggio antropico.

Gli Abruzzi, come già erano chiamati ai tempi di Carlo D’Angiò, vennero suddivisi in un Abruzzo Citeriore (l’attuale provincia di Chieti) e Abruzzo Ulteriore (il territorio delle attuali province de L’Aquila, Pescara e Teramo) nel 1273, separati dal fiume Pescara, in una suddivisione che è rimasta fino al Regno d’Italia.

I suoi monti impervi, dove non a caso dimorano l’aquila reale, il lupo e il camoscio d’Abruzzo e l’orso marsicano, si erano già prestati all’insediamento di tribù italiche come gli Equi, i Frentani, i Marrucini, i Marsi e i Peligni, per essere sottomessi dai latini nel terzo secolo ante Cristo. Con i Sanniti, le tribù abruzzesi, peraltro, nel primo secolo a.C. formarono la Lega Italica con capitale Corfinium (il primo caso di uso del termine Italia in una designazione politica), che fu poi sconfitta da Roma. La regione sarà poi sottomessa ai Bizantini, invasa dai Longobardi, e poi dai Normanni, che ne faranno un dominio con capitale Sulmona. E sarà in quel periodo che si svilupperà una rete stradale di tratturi per le transumanze fino al tavoliere pugliese. Nel Cinquecento, la regione fu oggetto di incursioni saracene e barbaresche rimaste note nell’immaginario popolare, come quella del 1566 dell’ammiraglio Piyale Pasha agli ordini di Solimano il Magnifico. Ma fu anche il suo periodo d’oro, cui fece seguito il sistematico infeudamento delle città, portato dagli spagnoli, che segnò l’avvio di una decadenza che non troverà fine, accentuata dai frequenti terremoti. Dopo l’interregno napoleonico, come nel resto d’Italia, le rivolte carbonare contro i Borbone furono frequenti. Ciononostante, la regione fu caratterizzata dalla formazione di numerose bande di briganti, che di fatto controllavano il territorio. E fu a Civitella del Tronto, peraltro, che ebbe luogo il lungo assedio che si concluse tre giorni dopo la formale annessione al Regno d’Italia il 17 marzo del 1861, grazie al sostegno brigantesco.

Con il nuovo regno iniziò anche una nuova era per lo sviluppo dell’area. Le regioni interne vennero lentamente spopolate per andare ad alimentare la crescita della fascia costiera, facilitata dalla costruzione della ferrovia adriatica dal 1863. E il declino dell’entroterra fu definitivamente accentuato dal terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915, che ebbe un impatto devastante su una vasta area, causando più di trentamila vittime.

Il ventennio fascista ebbe un’influenza importante, per lo sviluppo della città di Pescara, la creazione della provincia e la colonizzazione di vaste zone fino ad allora disabitate. Anche la guerra fece qui un passaggio non indolore. In regione furono creati ben quindici campi di internamento per ebrei e oppositori politici e, dopo l’8 settembre 1943, la regione fu tagliata in due dalla Linea Gustav fino ad Ortona. Numerose furono le battaglie tra alleati e tedeschi sul territorio, con distruzioni pesantissime, come importante fu la Resistenza, con la Brigata Maiella, e altrettanto feroci le repressioni tedesche, che portarono a numerosi eccidi.

Con il dopoguerra, riprese l’emigrazione, tanto dall’entroterra verso la costa che verso il Nord Italia e l’estero. Dai 1.277.000 abitanti del 1951, la popolazione scese fino a 1.166.000 nel 1971, come era stata nel 1931, per tornare poi lentamente ad aumentare fino al milione e 400mila abitanti di oggi. Si valuta che nell’ultimo secolo e mezzo sono stati un milione e 300mila gli abruzzesi che sono emigrati.

Quella abruzzese è stata un’economia con una certa industria, infrastrutture e trasporti che ha portato la regione ad essere la prima in termini di PIL tra quelle meridionali. Ma oggi, con un’economia nazionale che langue, anche l’Abruzzo traccheggia. Così, anche qui il turismo ha finito per diventare l’ultima risorsa, in un territorio che ha bellezze uniche e un patrimonio storico per molti versi cinematografico, una risorsa che richiede pochi investimenti e può usare manodopera a costi bassissimi. Ma che l’Abruzzo può usare con dovizia e parsimonia, un turismo che non sia consumo ma valorizzazione.

Tuttavia, accanto al turismo ci sono le antiche vocazioni che possono riportare in auge attività e territori macinati via dalla macchina industriale, agricole, alimentari, viticole, finanche pastorali, fermando lo scempio ambientale compiuto in nome del progresso e ridando senso ai luoghi salvandoli dall’anomia.

Paesi e borghi che non sono scenari in cartapesta per cartoline, che possono tornare ad essere luoghi abitati da persone attive, anche se incastonati su strade tortuose, centri di vita e laboratori di esperienze, oltre la coreografia di un passato incorniciato. Per ripartire da quel passato che, invece, diede da mangiare e da vivere a generazioni e generò appartenenza.

A San Martino sulla Marucina, uno di quei villaggi medievali sperduti, si arriva da Ortona passando per Guardiagrele, un borgo dal nome che ricorda banditi e soldati a cavallo. Qui nei pressi, già nel 1981, assieme alla moglie Marina Cvetic, aveva aperto le sue cantine, sulle sue tenute, Gianni Masciarelli, vitivinicoltore d’eccellenza, che però morì giovane nel 2008, lasciando l’attività a Marina e alla figlia Miriam Lee. E a San Martino ha trovato dimora Angelo, con la sua vineria ricavata in un ex frantoio, nell’antro di un deposito di salnitro ai piedi di un palazzo medievale, in cui serve piatti antichi e vini moderni.

Angelo, ortonese, è un po’ Corto Maltese, un marinaio che vorrebbe essere sempre in viaggio per mare, e un po’ pastore, con l’atavica pazienza di un camminatore lento per monti e tratturi. Angelo è l’esempio di questa economia dell’imperduto, per parafrasare il titolo di un bel saggio della poetessa Ann Carson su Simonide e Paul Celan (Utopia, 2024), ovvero l’economia dell’indimenticato.

I sapori non solo appartengono alla tradizione, ma vi sono sepolti e vanno riscoperti. E tanto più provengono da ingredienti e materiali che sono presenti da sempre ma abbandonati, non davvero dimenticati, ma solo lasciati da parte, tanto più si prestano ad essere ritrovati, non perduti. La ricerca culinaria di Angelo non ha niente dello chef stellato: è spontanea e radicata nella storia di un passato che è ancora e sempre presente. Perché Angelo è un guascone che viaggia, che riscopre, come lo sono le canzoni di Piero Marras, il cantautore sardo, perché «la musica è libertà» e così lo è il ricettario di Angelo. L’economia dell’indimenticato non solo recupera, ma innova e valorizza, ridando senso al locale, al di là delle fanfare del chilometro zero: niente di nuovo, forse, ma non è solo tradizione, ma saperi, rimescolati nel cosmopolitismo delle culture, nel mix di esperienze di questo nostro nuovo tempo.

Da Angelo si ritrova quell’Abruzzo che non hai conosciuto, tanto quello di Ovidio che quello di Silone, con il disincanto di un altro grande abruzzese, Ennio Flaiano. Ma anche il mondo, dalla Borgogna all’Irlanda, dai Balcani al Mediterraneo. Ed è l’Abruzzo delle transumanze, delle erbe selvatiche, delle ricotte, delle carni marinate a lungo (come la pecora alla callara). Dei boschi impervi di quei briganti che non volevano i Borboni e nemmeno i Savoia. E del mare, che da Ortona si apriva verso l’Oriente di Solimano.

Angelo racconta ogni piatto del suo menu sempre ad hoc come leggendo la pagina di un diario di bordo. E ogni suo piatto è un viaggio, di cui lui è nocchiero e guida, che recupera pratiche e leggende. Con i vini di Ileana e Daniele, con Angelo si può passare una serata che si chiude con un sigaro nel freddo del suo cortile con i divani di vimini, d’inverno, con la Maiella di dietro che spira i suoi venti gelidi.

Se c’è una ricetta che può funzionare per quest’Abruzzo è proprio quell’economia dell’imperduto, di cui Angelo è un esempio. Un’economia che riscopra il passato senza stravolgerlo, per riportarlo in vita, con la semplicità oggi smarrita dei prodotti della terra e del sudore e la conoscenza sedimentata delle attività di secoli. Prima di rimettersi in cammino, il viaggiatore può trovare il conforto di sapere che un viaggio è solo un altro sogno, come avrebbe detto Corto. Con il benestare di Angelo, con la bandana in testa, mentre omaggia regalmente i suoi commensali. Sono vent’anni che Angelo ha iniziato questo viaggio e non vuole smettere. Il suo cabaret ospita musicisti e avventori, rendiamogli onore.

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