Elena Ferrante al cinema e in tv: non è la stessa cosa

Giorgio Simonelli

Dopo aver visto la versione cinematografica di La figlia oscura che Maggie Gyllenhaal nel suo esordio alla regia ha tratto dal romanzo di Elena Ferrante, mi è venuto un sospetto che sintetizzo un po’ brutalmente così: la Ferrante funziona in tv ma non al cinema. Ora cerco di spiegare questa mia affermazione un po’ drastica.

Già molti anni fa nel lontano 1995 avevo avuto una sorta di avvertimento. Un regista che stimo moltissimo Mario Martone aveva portato al cinema, L’amore molesto e, a dispetto delle critiche molto positive e dei premi, il film mi aveva lasciato perplesso. Quello che Mereghetti nel suo Dizionario dei film celebra come una riuscita unione di thriller psicologico e melodramma a me era parso un mélo torbido e banale e la tanto lodata sensualità dei dettagli e dei primi piani un inutile compiacimento.

La cosa mi appare ancora più singolare oggi dopo aver seguito e ammirato la carriera di Martone. Il regista che ha saputo trattare magistralmente contenuti delicatissimi come il Risorgimento italiano o la vita di Giacomo Leopardi non ha rivelato la stessa genialità alle prese con la scrittura della Ferrante. Il sospetto di una difficoltà intrinseca alla narrazione della scrittrice di adattarsi alla struttura del film si conferma di fronte al lavoro di Gyllenhaal che è piaciuto alla stessa autrice (vedi Robinson-La Repubblica del 2 aprile) ma ha aumentato le mie perplessità.

Ritornano gli stessi problemi che avevo riscontrato in Martone: il prevalere di una dimensione eccessivamente mélo, l’ossessione dei particolari, la facile funzione simbolica di un oggetto rivelatore: là un vestito rosso, qui la bambola. Il tutto inserito nella cornice di una Grecia un po’ improbabile, mentre quando la storia torna in flashback al passato, la crisi del matrimonio e le avventure erotico letterarie della protagonista nel mondo accademico si dipanano tra prevedibili luoghi comuni.

Inevitabilmente a questo punto torna il ricordo della serie tv tratta dai romanzi della stessa autrice, il cui esito completamente diverso, direi felicissimo, risulta ancor più sorprendente. Come è stato possibile che, nonostante i rischi connessi con il cambio di regia, passata da Costanzo a Luchetti nella terza stagione, la versione televisiva de L’amica geniale abbia mantenuto per tutta la sua lunga durata un livello di qualità altissimo della scrittura audiovisiva?

La prima considerazione può sembrare persino ovvia e riguarda la temporalità propria della serie televisiva, l’ampiezza della sua durata. I tempi televisivi, la loro distensione, la possibilità di costruire e prolungare l’attesa inducono nella narrazione un atteggiamento riflessivo, uno sguardo che, all’opposto dell’ossessione della vicinanza ai personaggi e loro corpo tipica dei film, sceglie la distanza, una sorta di distacco, di visione dall’alto. Penso per esempio, nell’ultima serie, alla scena dell’interminabile, imbarazzante pranzo in casa degli scomodi parenti della coppia protagonista, in cui la tensione si prolunga all’infinito diluendosi nel tempo lunghissimo del racconto. Tutto ciò consente alla serie di rappresentare situazioni delicate e complesse – la camorra, le differenze di classe, l’adulterio, la violenza politica – senza eccessi melodrammatici, senza cadute nella prevedibilità, con grande coerenza stilistica.

C’è un particolare che ben segna bene la differenza tra l’eccellenza della serie e la modestia del film di Gyllenhaal: la presenza in entrambe le opere di Alba Rohrwacher in una piccola parte. Nel film fa parte della coppia che gira liberamente il mondo senza curarsi degli impegni familiari, affascinando per questo la protagonista in crisi matrimoniale ma dando vita a un personaggio prevedibilmente stucchevole. Nella serie di Luchetti è l’ultima immagine: il primo piano della protagonista invecchiata visto da lei stessa in uno specchio. Ed è un vero colpo di genio.

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