La leadership europea deve affrontare la sfida lanciata da Trump per instaurare una nuova egemonia globale. Ma per riuscirci dovrebbe essere in grado di contrapporre una concezione dell’ordine globale diversa da quella del presidente americano fondata non sul diritto internazionale, ma sulla politica di potenza che affida la soluzione alla forza (vera o temuta). Russia e Cina mostrano di riconoscersi in questa logica, ma operano per sostituire il declinante ordine internazionale unipolare, promosso dagli Stati Uniti, con un ordine multipolare che isoli proprio l’America e l’Occidente.
L’ascesa del potere transazionale: geopolitica business oriented
Trump ha accentuato la rottura dell’assetto passato, aprendo una nuova fase negli equilibri globali. L’obiettivo dichiarato è fermare il declino della supremazia statunitense, ma le incertezze che sta alimentando rischiano di accelerarlo. Il presidente americano sembra guidato da una sorta di principio Palmerston aggiornato. Il premier inglese di fine Ottocento sostenne che l’impero britannico non aveva amici o nemici permanenti, ma solo interessi permanenti. Trump considera amici e nemici intercambiabili e potrebbe sottoscrivere una simile affermazione. Con una differenza: neppure gli interessi americani sono permanenti, sono diventati transazionali, se si esclude il primato americano. Per Trump tutto può diventare oggetto di trattativa. La nuova normalità statunitense sovrappone geopolitica e business, come si è visto nel viaggio in Arabia o nell’accordo sulle terre rare ucraine. La centralità dell’economia è consolidata dallo spazio riservato agli affari, ai profitti dei grandi gruppi americani, della stessa famiglia presidenziale, che suggellano le intese. Di conseguenza lo scenario varia continuamente: i valori non obbligano, i trattati non vincolano, le alleanze si fanno e si disfano. Nella geopolitica business-oriented, dominano le convenienze del momento.
L’ideologia trumpiana consacra l’ascesa del nuovo potere transazionale. È stato dismesso il soft power, che poggiava sull’influenza e sull’autorità, sostituito dall’hard power, il potere coercitivo dello Stato, che viene utilizzato in modo aggressivo sullo scenario globale per concludere transazioni favorevoli. Ma viene brandito anche all’interno degli Usa per tenere a freno l’opposizione. In apparenza questa volontà di rottura degli equilibri e delle regole sembra una continuazione del liberismo degli ultimi decenni. Ma rivela anche una discontinuità profonda: la tecnologia, la finanza, l’economia, la deregolamentazione sono associate al rovesciamento delle strategie globaliste degli ultimi decenni. E in parallelo procede negli Usa la destrutturazione dello Stato federale, adottando un approccio autoritario che punta a ridurre il dissenso e a legittimare una gerarchizzazione sociale. È come se la destra americana abbia deciso di rispondere alla crisi del neoliberismo rilanciando la scommessa di un ultraliberismo dai tratti rivoluzionari, che usa il potere per un mutamento strutturale della società.
Le Big tech alter ego dello Stato privatizzato
Il capovolgimento della geopolitica si combina con un’alterazione della costruzione democratica. Lo Stato, inteso come sistema di norme e di limitazione dei poteri, entra in tensione con il capitalismo tecnologico. E viene destrutturato per rispondere ai nuovi compiti. La destra americana ipoteca il futuro: l’innovazione tecnologica e soprattutto l’intelligenza artificiale sono celebrate, ma servono a ridimensionare non solo i rapporti di produzione, i diritti, persino la concorrenza, ma la stessa idea di intervento pubblico. Tutto a favore di una visione oligopolista.
Alexander Karp, amico di Peter Thiel, l’inventore di PayPal sostenitore di Trump, e socio nella impresa Palantir specializzata nella intelligence militare, ha scritto un libro, La repubblica tecnologica, in corso di pubblicazione presso Silvio Berlusconi editore, in cui sostiene che l’intelligenza artificiale per eccellere deve essere un’attività totalmente privata. Noi possiamo vincere la sfida con la Cina, sostiene Karp, ma lo Stato non deve intromettersi, per esempio non deve porre vincoli sulla privacy dei dati, altrimenti non ce la faremo. Le grandi società digitali, le Big Tech, affermano sé stesse come alter ego delle istituzioni, il Big State. È la filosofia che giustifica la privatizzazione e la frammentazione commerciale dello spazio pubblico e dello Stato.
La conseguenza è la corsa allo spazio affidata a Musk, il ridimensionamento del settore statale a opera del Doge (ancora Musk) con tagli a sanità, scuola, servizi sociali, la messa al bando delle regole dell’inclusività. Lo Stato arretra e delega ai privati con l’obiettivo di aumentare l’efficienza, ridurre i costi, neutralizzare le resistenze di quello che la destra definisce il deep state. L’intelligenza artificiale, nel disegno di Musk, potrà sostituire molti dipendenti pubblici: la tecnologia come surrogato dell’umano. Trump così non rappresenta la vittoria di un conservatorismo estremizzato, ma di una destra radicale, drasticamente nuova: l’alleanza tra populismo e tecnologia oligopolistica, che genera incertezza e insicurezza. In questo panorama c’è da porsi la domanda non solo sulla parabola della democrazia, ma sulla metamorfosi del capitalismo.
La tecnopolitica: il movimento che vuol farsi ordine
Questo quadro conferma la perdita di centralità dell’Europa. Ma il continente non è più neppure una priorità. Oggi Washington vede l’Europa come un concorrente commerciale infido, un normatore dannoso per le Big Tech, un teatro geopolitico di secondaria importanza. La sfida si è spostata nel Pacifico, l’avversario è la Cina. Si tratta di una tendenza strategica non nuova: già Obama e Biden avevano focalizzato l’obiettivo strategico in Asia. Con Trump la svolta ha accelerato. Si è radicalizzata, ha ridimensionato la diplomazia, ha dimenticato la responsabilità verso il pubblico. Sono misurati solo i vantaggi materiali. In un mondo in competizione crescente, la guerra in Ucraina sembra distrarre dall’obiettivo di stipulare nuovi accordi di spartizione d’influenza tra «coloro che hanno le carte», vale a dire le tre superpotenze. È in questo passaggio che si conferma la logica imperiale che ispira Trump. L’America è pronta a difendere il proprio primato anche a costo di indebolire l’alleanza transatlantica. La guerra commerciale, la competizione tecnologica, rappresentano il terreno in cui lo scontro egemonico viene giocato tra strappi e negoziati. Uno scontro che implica un ridisegno della globalizzazione.
L’Europa osserva da spettatrice il conflitto tra il movimento guidato da Trump e l’ordine politico del passato. Per ora Bruxelles non riesce a contrastare la forza espansiva del movimento americano, che punta a costruire una visione del mondo che vincoli gli altri, l’Europa, alla propria logica. L’intreccio tra potere, Stato, tecnologia digitale, finanza e affari rivela la natura egemonica della tecnopolitica.
Forse dobbiamo considerare la tecnopolitica come un nascente sistema ibrido, che racchiude un’ideologia che esprime volontà di potenza e di controllo. Il suo requisito sembra essere il senso di onnipotenza, di illimitatezza che segna la rottura con il liberismo. Per meglio comprendere la spinta egemonica della tecnopolitica non possiamo adottare un solo punto di vista, ma occorre ampliare l’osservazione. Emmanuel Todd, nel libro La sconfitta dell’Occidente spiega che al fondo della crisi c’è la scomparsa del substrato protestante, che aveva dato impulso alla forza economica occidentale. La sua decadenza genera un nichilismo distruttivo, una «deificazione del vuoto», dice Todd, dominato da due tendenze istintive: la distruzione di cose e persone e la distruzione della nozione di verità. È chiaro che solo un’Europa più integrata, unita, potrebbe controbilanciare questa forza espansiva. Come spiega il professore Gary Gerstle nel suo libro Ascesa e declino dell’ordine neoliberale, l’attributo decisivo di un ordine politico «è la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare alla propria volontà il partito di opposizione».
La forza egemonica della destra trumpiana vuole che questo movimento si faccia ordine. E trova nella narrazione del presidente, nella durezza del suo linguaggio populista, un elemento determinante per farsi portatore di una visione complessiva del mondo e della società. La retorica con cui Trump ha giustificato la politica dei dazi ci offre un esempio del suo racconto: i dazi sono lo strumento con cui gli Stati Uniti ottengono la rivincita rispetto al mondo e all’Europa, che hanno prosperato alle spalle degli americani. È venuto il momento di fare pagare agli altri Paesi il conto per la difesa che gli Usa hanno assicurato, per le imprese americane che si sono delocalizzate, per l’accesso al mercato dei consumatori più ricco del pianeta. Si tratta di una visione distorta, ma parla all’elettorato Maga. È indirizzata a mantenere la presa sull’immaginario di ampi strati sociali che lo hanno votato, a orientare la parte conservatrice dell’opinione pubblica occidentale. È la legge del dominio che si dispiega.
Il dubbio che in realtà questa strategia possa accelerare il declino americano, è messo a tacere. Trump stipula accordi miliardari con gli arabi, ma è un problema l’indebolimento del «privilegio esorbitante» del dollaro. Il privilegio, spiegano gli economisti, deriva dalla funzione di riserva globale del dollaro, che consente agli Usa di emettere titoli di debito pubblico senza dovere offrire un rendimento particolarmente alto, neppure in periodi di crisi. Le decisioni di Trump ora hanno incrinato la fiducia nel dollaro, si è innescato un parziale disimpegno dai titoli americani con una transizione di parte del risparmio globale verso l’Europa e la sua moneta. Il fabbisogno globale di dollari potrebbe ridursi, attuando quella de-dollarizzazione dell’economia mondiale alla quale lavora a Cina. La politica dei dazi con il suo potenziale effetto inflattivo rappresenta un altro rischio. E il Congresso si appresta a varare nuovi tagli delle tasse a favore delle imprese e dei più ricchi, che potrebbero portare il rapporto debito/Pil al 200%, creando uno squilibrio delicato per gli Usa. Moody’s, infatti, ha abbassato il rating degli Stati Uniti da tripla A in Aa1.
Tecnologia e finanza al centro dei rapporti di forza
L’Europa è in attesa, ma dovrebbe agire: migliorare la propria competitività, costruire un mercato unico senza barriere interne, rafforzare la propria presenza autonoma in mercati come l’India, l’Africa, la Cina, rafforzare il dispositivo di difesa. L’Europa però è divisa.
La Commissione non supera la logica intergovernativa, il freno sovranista pesa. C’è una pluralità di voci, non è stato elaborato un chiaro posizionamento geopolitico capace di contrastare l’ordine trumpiano. Né l’Europa sembra in grado di ricorrere a una narrazione convincente rispetto alle opinioni pubbliche globali. Per questo il cancelliere Merz e il presidente francese Macron hanno rilanciato l’asse Berlino-Parigi, allargato alla Varsavia di Tusk e aperto alla Londra di Starmer. L’Italia della Meloni, con la sua ambiguità verso Trump, rimane fuori dal gruppo che si candida a diventare l’interlocutore degli Usa.
Le ambizioni della Meloni sono state ridimensionate dall’arrivo di Merz e dal suo nuovo asse con Macron, che ha rimesso al centro delle strategie non solo la Germania ma il Partito popolare europeo. Il cancelliere ha teorizzato una piena autonomia da Mosca (un’inversione rispetto al passato), ma anche un’ inedita indipendenza da Washington, che può aprire uno spazio e restituire vigore al progetto europeo. L’Italia rischia di rimanere ai margini di questo processo.
Il successo di un ordine politico, spiega il professore Gerstle, non dipende tanto da una vittoria elettorale, ma dalla capacità di plasmare ciò che governanti ed eletti «da una parte e dall’altra della barricata considerano politicamente possibile e desiderabile». La posta in gioco è attrarre gli altri attori all’interno della propria logica. Merz, Macron, Tusk ci stanno provando, mettendo a segno qualche punto. La Meloni sembra perdere questo round. Trump, nonostante errori e giravolte, riesce a imporre la propria agenda e la propria leadership. Ma fino a quando?
L’Europa deve trovare la capacità di disegnare un ordine post-americano. Secondo il professore Dani Rodrik, nel libro La globalizzazione intelligente c’è un «trilemma» della globalizzazione , secondo il quale è a rischio la coesistenza tra globalizzazione, stato nazionale, democrazia. Bisogna ridurre, ma non annullare, l’iper-globalizzazione che viviamo. L’Europa può avere un ruolo in questo gioco, ma deve porsi il problema del come farlo. Può dirottare le risorse e ridimensionare il suo modello sociale, come è emerso nel dibattito sulla sicurezza e il riarmo, oppure può trovare una via innovativa in cui la difesa e altri progetti non assorbano lo stato sociale, che anzi andrebbe irrobustito. Tecnologia e finanza sono al centro dei rapporti di forza e possono polarizzare non solo la società, ma le percezioni degli individui, frammentando la realtà. Se prevalesse questa via, Trump e la tecnopolitica avrebbero vinto la partita dell’egemonia.