Festival di Sanremo e storia di un’aggregazione nazionale

Stevka Šmitran

È da festeggiare il 73° Festival di Sanremo per diverse ragioni: per la musica certamente, per la coesione popolare ritrovata per l’occasione, e per lo stile di vita italiano.

È il bel canto che si completa nell’includere gli altri e, nell’essere inclusi, a propria volta, in un tempo reale che non va in stand by. La musica è tornata in auge per la competenza di chi la canta, chi la organizza e chi ne fruisce.  Lo studio della musica dei cantautori si è concentrato sulla parola e sulla storia della parola, come unicità espressiva di tutte le vicissitudini che accompagnano la vita dell’uomo.

La parola tramandata è riemersa spontaneamente come fosse un canto popolare, di mitologie e di risonanze, cosicché il Festival è diventato il luogo delle parole piuttosto che dei fiori, non più canzonette, ma testi da approfondire.

L’effetto imprevedibile del Festival è il ritorno alla memoria della vita passata dell’Italia migliore, dalla Costituzione della Repubblica del 1948 e la ricostruzione degli anni Cinquanta, al boom economico degli anni Sessanta e Settanta fino alla contemporanea consapevolezza del patrimonio culturale e artistico, accresciuto dallo sviluppo della scienza degli ultimi decenni.

Ne è venuto fuori un Festival di musica, studiata nei migliori conservatori e nelle scuole di musica, che promuovono le nuove tendenze canore e che hanno portato al successo quelle precedenti. L’attenzione del popolo è andata nella direzione dello stare al passo con i tempi di oggi in cui mancano certezze a cui affidare le aspettative della vita sociale che, se nel suo corso non ha modo di realizzare le proprie idee e potenzialità, è destinata a rimanere indietro.

Il Festival, lo si percepiva dall’inizio, è stato aggregante, il festeggiamento improntato ad una condivisione, pur mantenendo una autorevolezza formale. Quindi, via gli orpelli, cosicché un festival di musica leggera, di musica pop, ha fatto da traino culturale e ha esercitato un ruolo educativo.

Lo spirito guida è stata l’idea di partecipazione ad un convivio musicale: una filosofia spicciola, post-postumana se si vuole, ma una scelta consapevole. Una partecipazione convinta, comunque vissuta come una trasgressione innocente, una pausa dai tanti problemi quotidiani.

Stretta nella morsa delle incertezze, l’Italia ha compreso che ascoltare e cantare all’unisono l’inno nazionale e ricordare Salvatore Quasimodo e la sua poesia Il mio paese è l’Italia, significa riscoprire il senso della musica e riappropriarsi di quelle parole.

Un libro aperto e letto insieme agli altri, dalla prima pagina. Quiete e umori pacificati di una festa popolare, consolidata nella tradizione, di cui si è percepita la leggerezza ma che ha avuto il rigore di un evento preparato e studiato nei minimi dettagli.

Il popolo è colui che tramanda la musica che si rifà all’eredità culturale, in questo caso non generazionale, cogliendo appieno la funzione della parola e il linguaggio  è risultato essere dinamico e innovativo.

La canzone è così diventata l’attimo del nostro passato, che è nostalgia nobile del vissuto, e che al Festival di Sanremo ha prodotto il miracolo numero 73, dove le canzoni non hanno riempito il vuoto sociale, ma l’ambizione smisurata di dialogare e raccontarsi.

Il successo del Festival non è tanto dovuto all’originalità della musica o delle parole, quanto piuttosto allo spirito della storia come lo chiama Eliot, che in questo caso, corrisponde a quel format funzionante che il popolo italiano ha vissuto e saputo diffondere.

Anche a nome di quelli che ascoltano Largo al factotum o in gioventù hanno apprezzato il Rigoletto, nell’esecuzione di Franco Corelli, e tanto altro ancora, per dovere di cronaca, si scrive di musica leggera e di un Festival d’ispirazione nazionale.

Leggi anche