La vittoria di Genova sembra segnare un diverso approccio del centrosinistra a una questione che ha spesso affrontato con diffidenza: quello della leadership e delle caratteristiche individuali del candidato. Silvia Salis ha trascinato un campo progressista molto largo e ha conquistato il capoluogo ligure al primo turno.
Il dato dell’affluenza è eloquente: ha recuperato 7 punti rispetto alle passate comunali, prevalendo in quasi tutti i quartieri rispetto al concorrente di centrodestra. Si tratta di una chiara indicazione che la candidata è riuscita a mobilitare gli elettori. E non solo quelli dei quartieri popolari, che un tempo votavano a sinistra. Il voto di Genova conferma che, quando l’area progressista si unisce in coalizione, superando i veti può competere e vincere.
Ma il risultato non può essere circoscritto al funzionamento della formula, per quanto sia fondamentale. A Genova i partiti progressisti hanno svolto con efficacia il compito di selezionare il candidato. Hanno puntato sulla figura giusta. E la Salis si è rivelata decisiva. Un risultato che richiama quello di Alessandra Todde in Sardegna e rimette al centro dell’attenzione la leadership, in particolare quella femminile.
La centralità della leadership nelle democrazie moderne
La trasformazione strutturale della democrazia moderna negli ultimi decenni ha valorizzato il ruolo della leadership. Sono diversi i fattori che hanno contributo a questo esito, secondo gli studiosi: il processo di individualizzazione della società, la crisi dei partiti di massa, la difficoltà della democrazia rappresentativa, il declino delle ideologie (ma non la loro scomparsa), la mediatizzazione della società con il peso crescente della personalizzazione e della disintermediazione.
Ma l’interpretazione della società basata sulle condizioni strutturali ha ceduto spazio al ruolo degli individui. È in corso un processo più generale in cui i soggetti si emancipano dalle forme collettive e conquistano una maggiore indipendenza dai gruppi sociali e dalle istituzioni politiche.
La destra e i populisti considerano il leader dotato di qualità eccezionali, una sorta di eroe, di «sovrano della storia» capace di cambiare gli eventi, portavoce di un popolo omogeneo. I progressisti preferiscono il primato della forma collettiva, ma riconoscono alla leadership la capacità di esercitare un potere di direzione.
Come ha spiegato Ernesto Laclau, nel libro La ragione populista, populismo e leadership si possono intendere come la forma assunta dalla politica per ritrovare una base sociale che si è sgretolata.
Genova ha votato per circa dieci anni a destra, dopo essere stata a lungo una città di centrosinistra. Quando venne presentato Marco Bucci come candidato sindaco si verificò un movimento simile a quello avvenuto con Silvia Salis: l’astensionismo calò. Molti decisero di votare per cambiare. La figura simbolica che ha favorito lo spostamento fu il candidato. Questa dinamica sembra essersi ripetuta a parti invertite: stavolta ha premiato il centrosinistra.
Lo scontento per l’amministrazione era diffuso, la città voleva voltare pagina. L’unità non scontata dei progressisti è stato il prerequisito che ha reso possibile la vittoria. Ma la dinamica del voto è stata trainata dalla campionessa, preferita dai quartieri popolari, dai ceti medi, da parte di quelli medio-alti. Anche l’indebolimento della relazione tra elettori e partiti ha favorito la centralità della candidata: i cittadini si sono concentrati su di lei per comprendere se può risolvere le questioni politiche e amministrative. Da parte sua la Salis ha saputo riconoscere le aspettative degli elettori, ha offerto un’interpretazione convincente delle cose da fare. È intervenuta anche sul rapporto con i partiti e l’ha modificato: ha dedicato ampio spazio al tema della sicurezza, che la sinistra considera meno. Ha assunto su di sé le attese, i bisogni, i timori degli elettori (la funzione del «significante vuoto» di cui parla Laclau) e ha costruito con loro un rapporto di fiducia. In questo modo la leader ha sostituito i partiti nel ruolo di interprete della relazione tra società e istituzione comunale. Alla domanda: chi parla a nome di Genova? Gli elettori sono andati a votare più numerosi per farla vincere.
Il leader e l’appiattimento tra rappresentati e rappresentanti
Il leader attua un processo di riconoscimento, unifica un insieme eterogeneo di individui. Si potrebbe dire: con la sua offerta nomina un popolo. L’immagine di Silvia Salis, del resto, è apparsa subito vincente: campionessa olimpica, vicepresidente vicario del Coni nazionale, laurea in scienze politiche, una donna giovane, madre di un bambino. È subito entrata in sintonia con la città.
Una delle ragioni del successo della destra è stata aver saputo interpretare un fenomeno nuovo: l’appiattimento tra rappresentati e rappresentanti. In passato si votava spesso «chi ne sa più di noi», candidati autorevoli o ritenuti tali. A seguito della crisi delle organizzazioni di massa la tendenza è diventata votare «chi è come noi». Una tendenza rafforzata dal populismo, dalle forme di comunicazione diretta del digitale, che hanno connesso politici e elettori senza intermediari (la disintermediazione). La democrazia dell’audience ha posto al centro un modello di comunicazione che coinvolge i cittadini attraverso un linguaggio emotivo, gridato, in cui scompare la mediazione. Nella scena pubblica frammentata, è emersa la figura del leader emozionale, che raccoglie un consenso simile al tifo del calcio, spiega il professore Lorenzo Viviani nel libro Leadership e democrazia. L’offerta risponde al bisogno di parte del pubblico di vedere legittimate ed espresse le proprie convinzioni. Di sentirsi parte di una comunità. Di essere rappresentati da soggetti uguali a noi. Talvolta peggiori di noi.
Il modello di leadership orizzontale contro quello verticale
A Genova l’appiattimento tra rappresentati e rappresentanti è stato interpretato dal versante progressista. Ci sono leader che sono reclutati all’interno dell’élite, che rafforzano il potere in mano all’oligarchia. Ci sono leader che provengono dall’esterno delle élite, che assumono un ruolo di rottura rispetto all’establishment che governa, che può insediare una nuova classe dirigente. In genere la destra ha privilegiato leader antiestablishment. Ma Silvia Salis per il fatto di essere donna, campionessa, dirigente, ha rappresentato una nuova generazione rispetto alla destra genovese, maschile, responsabile di una gestione deludente.
Alle regionali il centrosinistra aveva scelto l’ex-ministro Orlando, politico di lunga carriera, forse per questo percepito come volto di una classe dirigente mainstream. La Salis, invece, è naturalmente l’immagine di «una di noi» al servizio degli altri. Potremmo dire: una di noi, ma migliore di noi.
La sua biografia di dirigente del Coni, dopo quella di atleta, sembra averla preparata ad affrontare ogni tipo di sfide. Del resto, anche nello sport, la Salis ha dovuto lottare contro diseguaglianze e pregiudizi. Con intelligenza e tenacia è riuscita a costruire un’alleanza ampia e unita. Il suo discorso ha proposto una narrazione e una visione che hanno convinto, che hanno favorito l’identificazione della città con lei. Il discorso della leadership deve raccogliere le domande frammentate della società, deve aggregarle, spiega Laclau, «attorno a un nuovo nocciolo». In questo modo la candidata rivela un’energia trasformativa, una capacità di costruire identità, di offrire un orientamento di senso.
Silvia Salis è l’opposto di un leader della destra, che genera l’attesa attorno alle doti eccezionali dell’individuo che comanda, che risolve di forza i problemi (anche se poi accade raramente). La nuova sindaca non ha seguito la personalizzazione populista del leader, che accentra su di sé il potere. Vale a dire un leader che segue la logica della verticalizzazione e aspira al carisma. Al contrario, ha reso visibile un modello differente: quello della leadership che sviluppa l’orizzontalità, che delega e fa crescere una classe dirigente, che favorisce la partecipazione. Ha manifestato responsabilità, desiderio di dare visibilità sociale a chi ne era stato escluso.
Quale sarà il suo primo atto da sindaca? le è stato chiesto. Ha risposto che attuerà il decentramento, affinché i genovesi percepiscano vicina l’istituzione, smontando la centralizzazione attuata dalla destra.
Il nuovo stile della straordinarietà ordinaria
Silvia Salis ha rivelato quella straordinarietà ordinaria tipica della leadership, ma con uno stile di segno opposto rispetto alla destra. La Meloni può essere un esempio di quella che Pizzorno forse definirebbe sfera pubblica illusoria, perché i cittadini sono chiamati a partecipare, ma restando fuori dall’esercizio del potere. La Salis vuole essere artefice della partecipazione nelle istituzioni. Come è accaduto in Sardegna con Alessandra Todde, la leadership femminile sembra garantire una discontinuità più credibile, più rassicurante per risolvere la crisi. È nuova perché incorpora significati come l’attenzione al quotidiano, vale a dire misurare le cose partendo dai bisogni di ogni giorno nella vita comune. È nuova perché costruisce la fiducia attraverso l’inclusione.
A destra la Meloni conferma quanto ha scritto il professore Michele Sorice nel libro Leadership politica: la rappresentazione, la messa in scena sui social e in tv del potere che comanda dall’alto, sostituisce la rappresentanza. La logica della seduzione ha preso il posto della mobilitazione. La Salis ha rifiutato lo «spettacolo della leadership», secondo la definizione di Viviani, all’interno della disintermediazione, in cui «il leader si mostra al pubblico» e di fatto tende a manipolarlo. Così il leader si trasforma in celebrità. La Salis vuole impersonare dei valori, riformula il conflitto del basso contro l’alto suscitato dal populismo in una contesa sul buon governo della città tra cittadini e politica autoreferenziale. Questa leadership femminile sembra connettere partecipazione e deliberazione.
Allora occorre più leadership o più democrazia? Silvia Salis risponderebbe: più democrazia. È la risposta che distingue il leader progressista.