Giuseppe Di Vagno, un gigante della politica

Ferdinando Pappalardo

Nella tarda serata del 25 settembre 1921, dopo avere presenziato all’inaugurazione della sezione del Partito socialista di Mola e essere intervenuto a un comizio in piazza XX settembre, Giuseppe Di Vagno si dirigeva, solo e a piedi, verso la periferia della cittadina, dove lo attendeva il calesse che avrebbe dovuto riportarlo a Conversano. Lungo il percorso, fu aggredito da un manipolo di squadristi a colpi di pistola e con il lancio di una bomba a mano. Soccorso e prontamente ricoverato nel locale ospedale, spirò il giorno seguente per la gravità delle ferite riportate.

L’odioso e vile attentato, compiuto con la deliberata volontà di uccidere, conteneva un evidente significato politico che pochi, al tempo, vollero cogliere nella sua interezza. Mostrava che il fascismo andava ben oltre il culto dell’esibizione muscolare e gladiatoria predicato dai futuristi, ed eleggeva la violenza ‒ spinta fino all’estremo della eliminazione fisica dell’avversario ‒ a strumento ordinario della lotta politica: con ciò rifiutando i principi che stanno a garanzia della convivenza civile, e ponendosi al di fuori della legalità.

Ma, soprattutto, rendeva manifesta l’assoluta incompatibilità fra il fascismo e la democrazia liberale; l’assassinio di un parlamentare (quello di Di Vagno fu il primo nel periodo di tempo che intercorre fra l’insorgenza dello squadrismo e l’instaurazione dello Stato totalitario) rappresentava un oltraggio al Parlamento, rivelava un assoluto disprezzo della massima istituzione della democrazia rappresentativa. Tutto ciò avrebbe dovuto aprire gli occhi a quanti intendevano servirsi del movimento fascista per contrastare le rivendicazioni delle masse popolari e l’iniziativa delle sue organizzazioni politiche e sindacali, e addirittura gli affidavano il compito di restaurare l’autorità dello Stato liberale. Ma non accadde.

Perciò l’uccisione di Di Vagno costituisce un evento capitale del conflitto fra progresso e reazione che insanguinò l’Italia del primo dopoguerra. Il «gigante buono» (così lo aveva soprannominato Filippo Turati) era nato a Conversano nel 1889 da una famiglia di contadini agiati. Conclusi gli studi liceali nella sua città natale, si trasferì a Roma e si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza, conseguendo la laurea nel 1912. Negli anni del soggiorno romano aderì al Partito socialista, anche per effetto dell’ascendente esercitato su di lui dal magistero di Enrico Ferri, il celebre criminologo che era stato per qualche tempo segretario nazionale del PSI e direttore dell’«Avanti!».

L’adesione di Di Vagno al Partito socialista non fu determinata da convincimenti politici e ideologici, ma da motivazioni intellettuali, morali e persino sentimentali; ovvero dal profondo legame con la sua terra, dalla solidarietà con le classi più umili, dalla volontà di difenderne i diritti e di promuoverne la dignità, di combattere le disuguaglianze che il brutale egoismo dei ceti proprietari pretendeva di perpetuare. E infatti, dopo avere esercitato per un breve periodo l’attività forense nella capitale, egli fece ritorno a Conversano, dove si mise alla testa delle lotte bracciantili guadagnandosi in breve tempo una larga popolarità, tanto da essere eletto in Consiglio provinciale nel 1914.

La militanza di Di Vagno nelle fila del Psi fu caratterizzata dal binomio di rigore ideale e di pragmatismo. Insofferente di ogni forma di settarismo e di dogmatismo, egli era convinto che a orientare l’azione politica dovesse essere non l’astratta e meccanica coerenza con una tavola di principi, ma la valutazione dei concreti benefici che ne sarebbero derivati per le masse lavoratrici; e che l’unità delle forze politiche popolari e democratiche costituisse un obiettivo irrinunciabile.

Questo modo di pensare, unitamente a una forte personalità e una totale autonomia di giudizio, lo portò a volte in rotta di collisione con il PSI, o almeno con alcune sue «frazioni». Quando, dopo la fine della guerra, accettò di tornare a occupare il ruolo di segretario dell’Ente provinciale di consumo, fu accusato da alcune frange di massimalisti di compromissione con la borghesia; ma egli riteneva che fosse giusto contribuire in prima persona a una gestione trasparente ed efficiente di quell’organismo, che, promuovendo forme di cooperazione fra i consumatori, era in grado di calmierare i prezzi dei generi di prima necessità e dunque di alleviare le condizioni di estrema povertà in cui versava il popolo dei braccianti.

Ancora: la condivisione delle tesi meridionalistiche di Gaetano Salvemini provocò l’esclusione di Di Vagno dalle liste del PSI nelle elezioni politiche del 1919; ma la frattura venne in breve tempo ricomposta, e nell’ottobre dell’anno seguente egli venne rieletto in Consiglio provinciale nelle fila dei socialisti.

Il carisma e l’autorevolezza di Di Vagno, la stima conquistata fra i lavoratori delle campagne grazie al suo attivismo, alla sua abnegazione, alla incisività dell’azione politica come pure alla generosità con cui esercitava la professione forense (patrocinava gratuitamente i braccianti imputati a vario titolo di reati contro la proprietà latifondista), lo resero ben presto inviso ai fascisti, che si convinsero della necessità di neutralizzarlo per decapitare politicamente il movimento bracciantile.

A seguito dei gravi incidenti avvenuti durante uno sciopero generale proclamato a Conversano, il 25 febbraio 1921, dai sindacati e dai partiti di sinistra per chiedere che fosse posto un freno alle violenze squadristiche, Di Vagno venne falsamente incolpato di avere istigato gli scontri dai fascisti, che giunsero addirittura a decretarne il bando dalla città. E allorché, pochi mesi dopo, venne ufficializzata la sua candidatura al Parlamento, gli squadristi assalirono e incendiarono la Camera del lavoro di Conversano, allo scopo evidente di intimidire l’elettorato popolare e lo stesso dirigente socialista.

Una volta eletto deputato, per dimostrare di non essere disposto a subire le prepotenze dei fascisti e confidando nello status di parlamentare, Di Vagno decise di violare l’ostracismo decretato dai fascisti e tenne un affollato comizio nella sua città natale il 30 maggio 1921; al termine della manifestazione, un gruppo di squadristi provenienti da Cerignola gli tese un agguato, da cui Di Vagno uscì illeso ma nel corso del quale vennero feriti nove braccianti e rimase ucciso un militante socialista.

La fermezza di Di Vagno venne interpretata dai fascisti come una sfida e quasi una provocazione; falliti tutti i tentativi di intimidirlo, essi si risolsero a liberarsi definitivamente di questo loro tenace, indomabile oppositore. Da quel momento in avanti, si verificarono aggressioni ai danni del deputato socialista in molti Comuni della provincia di Bari ‒ da Casamassima a Noci a Putignano ‒ nei quali egli si era recato per partecipare a iniziative politiche e a manifestazioni di propaganda: aggressioni risoltesi sempre senza danni alla sua incolumità. Alla vigilia della trasferta a Mola, Di Vagno venne informato da più parti (persino ‒ sembra ‒ dal Prefetto di Bari) che i fascisti stavano preparando un attentato alla sua persona; ma non accolse gli inviti alla prudenza che gli venivano rivolti. Temeva ‒ a ragione ‒ che agli occhi delle masse bracciantili ogni atteggiamento di cautela sarebbe apparso come un segno di debolezza o ‒ peggio ancora ‒ di cedimento, e avrebbe pregiudicato la loro capacità di resistere alla dilagante violenza dello squadrismo.

A cento anni dalla morte, è dunque doveroso rendere omaggio a uno dei martiri più illustri dell’antifascismo, a una straordinaria figura di combattente per la causa della giustizia sociale, del riscatto e dell’emancipazione delle plebi rurali del Mezzogiorno; e ricordare l’eccezionale tempra morale, il coraggio, la determinazione, la generosità dell’uomo, come pure l’ammirevole statura del dirigente politico.

In un secolo, tutto (o quasi: il veleno del fascismo, ad esempio, continua a circolare nel corpo della società italiana) è cambiato; e può sembrare azzardato cercare nella vicenda di Giuseppe Di Vagno, cui toccò in sorte di vivere un tragico passaggio d’epoca, insegnamenti validi per il presente. Ma consideriamo alcuni aspetti di tale vicenda.

Il primo: Di Vagno ripose grande fiducia nella democrazia rappresentativa e nelle sue istituzioni, e coltivò una visione alta e nobile della funzione del Parlamento (prima ancora di entrare a farne parte), inteso come la sede in cui anche i ceti più poveri e marginali potevano concorrere, attraverso i loro rappresentanti, alle scelte che determinavano la vita della nazione.

Il secondo: Di Vagno era convinto che l’esercizio del ruolo del dirigente politico imponesse il rispetto di doveri inderogabili, a cominciare dalla fedeltà ai propri principi, dalla coerenza dei comportamenti, dall’obbligo di porsi come punto di riferimento e come esempio per i lavoratori e i cittadini che si riconoscevano nel partito.

Il terzo: Di Vagno ricercò costantemente e caparbiamente la più ampia unità delle forze democratiche e di progresso.

Tutto ciò vorrà forse dire qualcosa in un tempo caratterizzato dal populismo e dall’antiparlamentarismo, dal ritorno in grande stile del trasformismo, da una politica distante dalla realtà, cinica e autoreferenziale, dalla prevalenza di spinte centrifughe, di meschini calcoli di parte, di giochi di potere sulle convergenze necessarie a una efficace tutela e promozione del bene comune.

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