Goffredo Fofi, 88 anni spesi sulle barricate, sempre in viaggio e sempre presente, se n’è andato. Pur ancora sano, lo aveva fiaccato la rottura di un femore, finché nel passaggio da un ospedale all’altro di questa Italia dalla sanità scassata, un arresto cardiaco lo ha finito.
Di lui hanno già scritto in tanti, gran parte della sua vita pubblica è stata rapidamente riassunta ed è interessante notare che, per quanto fosse stato un fustigatore, da molti sono arrivati apprezzamenti, tanto che forse lui stesso se ne sarebbe sorpreso. Ma è il destino di chi è integro, e pochi lo furono come lui interamente sempre, di dover fare chiesa a sé in vita per trovare estimatori e seguaci in morte.
Così, tanto resta da dire, per colmare un vuoto che presto si farà enorme, a dimostrazione della sua unicità. Un maestro, non tanto per quello che ci ha insegnato, ma per come è stato. Un’intelligenza sempre vivace e acuta, uno sguardo sul mondo mai convenzionale, tanto meno conformista, un’inquietudine che denotava la sua perenne giovinezza, il suo continuo voler sempre ricominciare lungo un sentiero non battuto, con gli occhi vergini dell’indagatore privo di pre-giudizi, lui comunque sempre schierato dalla parte di chi non ha, di chi cerca, di chi apre, dell’altro. Scrisse molti libri, moltissimi articoli, diresse riviste, trattando di cinema, letteratura, società e politica.
Figlio di famiglia di mezzadri emigrati dalle campagne umbre, proletario, a Parigi conobbe la giovane Ginevra Bompiani, con cui legò, nonostante la differenza di classe che lui già le rinfacciava e che le avrebbe sempre affettuosamente ricordato. Era stato in Sicilia con Danilo Dolci, mandatovi dall’altro grande umbro, Aldo Capitini (e come non aprirsi gli occhi con maestri simili), e già voleva conoscere e cimentarsi con la critica del capitalismo rampante del boom economico.
Goffredo si fa notare e impara: con Angela Zucconi l’inchiesta sociale, con Raniero Panzieri il socialismo critico, con Franco Fortini la durezza della critica, frequentando e avendo a riferimento persone diverse come Manlio Rossi Doria, della scuola di Portici, Rocco Mazzarone a Tricarico, Ada Gobetti, Renato Solmi, Cesare Cases, finanche Elio Vittorini.
Sa apprendere per riprendere percorsi e linee di pensiero, che poi riprodurrà di sua iniziativa. A Parigi collabora a Positif, la rivista rivale dei Cahiers du Cinema, dove diventa un critico cinematografico militante, per portare poi in Italia un modo di scrivere di cinema da noi sconosciuto, parlando del cinema dei registi e della società in cui si muovono. Dopo il periodo parigino, rientra in Italia nei primi anni Sessanta, a Torino, un periodo di cui si ha riscontro in Strana gente, il diario del 1960, e incontra Ignazio Silone, Ada Gobetti, Gigliola Venturi e tanti altri. A Torino svolge un’inchiesta sull’immigrazione meridionale il cui libro verrà rifiutato da Einaudi per le considerazioni che contiene sulla politica dell’azienda concittadina, la Fiat, nei confronti degli immigrati. L’immigrazione meridionale a Torino sarà poi pubblicata da Feltrinelli nel 1964. La decisione di Einaudi comporterà anche il licenziamento di Raniero Panzieri e Renato Solmi, che lavoravano in casa editrice, favorevoli alla pubblicazione. Ricorda Goffredo Fofi, scrivendo dei suoi anni a Torino: «Sono contento e orgoglioso di aver seguito per tre anni ansiosamente non solo il destino degli immigrati meridionali ma anche quello degli operai della Lancia e delle piccole fabbriche e bòite della periferia, di aver visto gli operai molto da vicino, e di essere stato nelle loro case da amico e compagno. Di aver preso parte attiva, del tutto secondaria, alla preparazione degli scioperi del ‘62. Il giorno in cui gli operai della Fiat si destarono dal decennale sonno della guerra fredda, rimane uno dei più emozionanti e dei più belli della mia vita. E lo devo a Raniero. Sulla mia inchiesta e sulla reazione degli einaudiani molti hanno scritto, in particolare Luca Baranelli e Renato Solmi, che conoscono quella storia meglio di me, dall’interno della casa editrice e delle sue contraddizioni. Quel che a me fece più male non furono le critiche al libro di alcuni che molto stimavo, anzi amavo, come Bobbio e Venturi (nel cui studio l’avevo battuta a macchina…), Giulio Bollati e Italo Calvino, equilibrate dal sostegno di altri amici e più cari, come Cesare Cases, Franco Fortini, Giovanni Pirelli, e dalla lucidità di Massimo Mila – perché avevo nel frattempo preso altre strade e vivevo altre esperienze, e perché non ho mai dato troppo valore alle cose che ho scritto – pur rivendicandone un’assoluta sincerità. Quel che a me fece male fu il comportamento dei due Giulio (per uno dei quali, il padrone, non ho mai provato simpatia, mentre con l’altro c’era un certo dialogo), e il licenziamento di Solmi per incompatibilità delle sue idee con quelle della casa e di Panzieri – in modo offensivo e tutto “torinese”, di chi considera il lavoro editoriale non come invenzione e scoperta e confronto ma come pretesa di egemonia culturale attuata con spirito burocratico – per inadeguatezza delle sue idee al loro progetto, e addirittura per “scarso rendimento”. Chi ha avuto la fortuna di frequentare l’ufficio di Raniero in via Biancamano ricorda bene la vivacità che vi si trovava, gli incontri e le discussioni che vi si facevano e da cui nascevano idee di libri e di collane come in nessun altro ufficio accadeva. E d’altronde, ricordo che un giorno, deluso dai risultati di una riunione in cui alcune delle sue proposte erano state accolte freddamente o bocciate, Raniero – che si arrabbiava di rado – definì i redattori einaudiani in un modo che non mi sembrò eccessivo: “merluzzi lessi in frigorifero”. Raniero è stato un personaggio esemplare della storia del socialismo italiano…».
Dopo Torino, la sua tribuna diventa la rivista de Quaderni piacentini, la rivista fondata nel 1962 a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, su cui scrive di cinema, con critiche serrate, irriverenti, anche di chi è già grande (Antonioni, Fellini, Visconti). Scriverà sempre di cinema, come in Il cinema italiano: servi e padroni (Feltrinelli, 1971) e come nella bella Avventurosa storia del cinema italiano, che uscirà a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, in collaborazione con Franca Faldini, compagna di Totò, una oral history del nostro cinema che è uno spaccato sulla società italiana dagli anni Trenta ai Settanta.
Transita per Napoli, si avvicina a Lotta Continua, partecipa all’esperimento della Mensa dei bambini proletari, e fa amicizia con Fabrizia Ramondino, Annamaria Ortese e Elsa Morante, che faranno parte del suo pantheon di grandi scrittrici novecentesche. Dell’amata Elsa , su cui non smetterà di scrivere e di interrogarsi, farà del libro più amato Il mondo salvato dai ragazzini (del 1968) la sua bibbia personale all’insegna dell’inventività che contesta il potere, che sia questo politico, economico, militare o accademico. La sua adesione allo sforzo di Elsa Morante di scrivere con La storia un libro per tutti, ad esempio, è convinta, così come lo è il rifiuto delle Città invisibili di Italo Calvino, che reputa un raffinato gioco letterario di uno scrittore da cui Fofi vorrebbe altro in quel momento storico, o di tutta l’esperienza del Gruppo 63, troppo à la page.
Goffredo Fofi diceva di sé: «Non mi ritengo un bravo intellettuale e neanche un intellettuale, bado più alle persone e alle loro qualità umane che non ai loro titoli e alla loro intelligenza».
Dopo i Quaderni, va a Milano, fonda Ombre rosse, poi torna a Napoli, e si ferma a Roma, anche se continuerà a girare l’Italia in lungo e in largo, partecipando, discutendo. Da una rivista all’altra, le fa nascere per poi farle vivere autonomamente, perché ha subito bisogno di altro, di qualcosa di nuovo. Sarà la volta di Dove sta Zazà, Lo Straniero, Gli Asini.
Prende parte, dà battaglia, anche se a volte cambia idea (come farà su Fellini), litiga e si riconcilia. Si circonda di collaboratori, che trova con fiuto geniale, come saranno ad esempio Alessandro Leogrande e Luca Rastello. Raccoglie attorno a sé i non rassegnati, chi cerca qualcosa di diverso e di tracciare sentieri alternativi. Rifiuta il midcult, come Dwight MacDonald definisce la paccottiglia culturale ammantata in vesti solenni, come ad esempio Benigni che riduce la Shoah a un’occasione per spargere buoni sentimenti, e abborrisce la cultura come intrattenimento (i festival, i «consumi culturali»). Fofi, come i suoi collaboratori e anche i suoi seguaci, è un non riconciliato che non ha mai smesso di criticare, di essere contro, un eterno outsider spesso poco amato per il suo ideologismo. Ma i nemici non lo spaventavano, gli davano soprattutto fastidio «gli inutili», chi scriveva libri «carini» o dirigeva film «gradevoli».
Sono moltissimi i libri firmati da Fofi e per conoscerlo si può cominciare dall’antologia curata da Emiliano Morreale, Sono nato scemo, morirò cretino (2022) e, anche se poco incline all’autobiografismo, le tante belle pagine contenute in Le nozze coi fichi secchi (1999) in cui narra gli anni dell’infanzia e della formazione.
Aveva un’inesausta capacità di lavoro e una vastissima famiglia di amici sparsi ovunque. Curioso, sanamente incoerente, irrequieto, si stufava di tutto. Dopo gli anni di fuoco tra il 1968 e il 1977, «il periodo tra il cane e il lupo», non perse mai la bussola, rimanendo sempre un militante. Cercava sempre il nuovo e per questo voleva vedere la realtà «dalla parte dei ragazzini», dei «personaggi di confine»,
Racconta Ginevra Bompiani che per anni l’ha sgridata finché un giorno non l’ha sgridata più, iniziando a farle dei complimenti. Perché? Lei si chiese. «Perché non sei cambiata», le disse, perché era rimasta immatura, come l’aveva conosciuta. E questo, come mi dice Ginevra, questo è esattamente ciò che è successo a lui. Non è mai diventato un uomo maturo. È rimasto nuovo, giovane. Che non vuol dire che sia rimasto uguale, ma sempre iniziale. Era sempre al principio. Tutto quello che faceva, che pensava, che raccontava nasceva allora. Qualcuno magari si stupiva che dopo aver fatto una magnifica rivista, ne facesse un’altra, quasi fosse stanco della precedente: ne era stanco, infatti, perché non era più nuova e a questo punto la lasciava andare. Le mille cose che ha fatto e detto non sono invecchiate con lui. Per tutta la vita non ha fatto che nascere.
Sempre giovane, sempre circondato da giovani, sornione e pungente, mai cattivo. Un maestro che ci ha insegnato tanto. Di quelle persone che andandosene mettono un segno meno sul mondo, come mi dice Ginevra Bompiani. E anche io sono tra quei tanti (o forse pochi, la minoranza che sempre saremo) che lo ha letto, studiato, seguito e ammirato e non ha mai smesso di considerarlo un riferimento. Oggi, con la sua dipartita, siamo più soli e persi, ma dobbiamo raccogliere il testimone del buon Goffredo che aveva sempre una parola buona e non rinunciava mai a pungere.
