Secondo i dati SVIMEZ, negli ultimi dieci anni circa un milione di persone residenti nel Mezzogiorno d’Italia è andato via per realizzare altrove i propri obiettivi professionali.
Negli ultimi tre anni il numero degli under 40 che ha deciso di cambiare lavoro è aumentato di oltre il 25%, persone che non vengono licenziate per qualche motivo, ma decidono di cambiare pensando di poter avere un lavoro migliore, spesso riuscendoci.
Viviamo l’epoca delle opportunità senza confini e della mobilità delle persone in cerca dell’occupazione gradita e sempre desiderata in qualche parte dell’Europa, o del mondo. Si muovono i capitali, si muovono i progetti industriali e quindi si muovono le persone, che vanno dove pensano di poter stare meglio.
Sembra ormai consolidarsi un approccio diverso da parte di lavoratori e lavoratrici: liberarsi del job lock (tipico nel nostro Paese), ossia quel meccanismo per cui, per il timore di avere difficoltà finanziarie e di averne nel trovare un altro impiego, non si lascia un lavoro che in realtà si odia. E, avvalendosi della propria professionalità, scegliere che lavoro fare e dove farlo, piuttosto che farsi scegliere accontentandosi del primo impiego che capita.
L’andamento dei concorsi pubblici, quelli che garantiscono il posto fisso, hanno segnato negli ultimi anni un vero e proprio flop in termini di partecipazione.
L’azienda spagnola Software Delsol ha autonomamente optato, dal 2020, per la settimana lavorativa di quattro giorni. L’assenteismo è diminuito, la produttività aumentata (pur lavorando, apparentemente, meno) e i dipendenti hanno accolto con favore questa innovazione.
Si espande il numero di aziende, in Germania, Danimarca, Svezia, che lasciano più tempo libero ai dipendenti e più libertà di organizzarsi il lavoro e la vita, senza chiedere di timbrare il cartellino a una determinata ora; come si espande il numero di lavoratori e lavoratrici che più che pensare alla logica del posto fisso e a confliggere per il suo strenuo mantenimento, sono favorevoli a modelli diversi, più al passo coi tempi.
Spesso, in considerazione dell’innalzamento dei livelli medi di istruzione e della qualificazione professionale, non è più nemmeno il contratto a tempo indeterminato, un tempo agognato e inseguito, il principale obiettivo delle persone, bensì lavorare in ambienti più performanti dove potersi esprimere.
Questo è il mondo del lavoro oggi.
Orbene, in questo contesto, a giugno, il corpo elettorale sarà chiamato ad esprimersi su alcuni quesiti referendari, che hanno l’obiettivo di abrogare parte della riforma del Diritto del Lavoro, meglio conosciuta come Jobs act.
Qualcuno può in buona fede pensare che con tutto quanto successo negli ultimi trent’anni, sviluppo tecnologico, competenze digitali, nuovi ed impensabili, fino a ieri, modelli organizzativi, internazionalizzazione delle economie, intelligenza artificiale, di fronte a tutto questo, qualcuno può pensare che ripristinare, attraverso i referendum, una quota di rigidità nel tessuto produttivo possa risolvere il problema delle fragilità, possa innalzare il livello delle retribuzioni, possa migliorare la qualità del lavoro, l’occupabilità delle persone, la loro dignità?
Perché di questo in fondo si tratta: ingessare nuovamente il mercato del lavoro ripristinando una normativa pensata e introdotta quando non esistevano nemmeno i computer, per intenderci.
Dall’entrata in vigore del Jobs act, che ha inteso allineare la nostra disciplina con quella degli altri Paesi dell’Unione Europea, superando una insostenibile anomalia, non c’è stata affatto l’ondata di licenziamenti da alcuni temuta. Secondo i critici, gli impeghi a tempo indeterminato avrebbero dovuto crollare in conseguenza dell’entrata in vigore della riforma e invece sono cresciuti.
Se chi sostiene il referendum pensa di riproporre una concezione del lavoro come «diritto all’inamovibilità», dovrebbe spiegare come si sia potuto tollerare che, con il vecchio regime, questo presunto diritto fosse negato a qualcosa come la metà di lavoratori e lavoratrici nel mercato del lavoro, generando una asimmetria simile a un’apartheid fra chi un impiego lo ha e chi no. E come mai questo diritto sia sconosciuto in tutti i Paesi dell’Occidente, anche quelli dove governa, o ha governato, la sinistra.
Il 1° maggio abbiamo celebrato la Festa dei Lavoratori. Dobbiamo, tutti, continuare a lottare e a rivendicare dignità e diritti per tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici in questo mondo complesso. Diritti fondamentali che non sono negoziabili e, questi sì, hanno il carattere dell’eternità. Ma la stabilità del posto di lavoro non è un diritto esigibile, piuttosto un’opportunità da costruire, anche attraverso una normativa che favorisca inclusività e non torni a scaricare la flessibilità che irrimediabilmente il tessuto produttivo richiede sulla parte più fragile e indifesa della forza lavoro, per tutelare oltremodo ed oltre ogni logica l’altra.