Il Dante di Pupi Avati, finalmente

Giorgio Simonelli

Alla fine, Pupi Avati ce l’ha fatta. Ci ha messo quasi vent’anni ma è riuscito a realizzare quel progetto a cui teneva enormemente e per cui si era battuto strenuamente anche con qualche polemica: un film su Dante. Ma la felice conclusione della lunga storia è andata oltre ogni rosea aspettativa.

Il film uscito nelle sale a fine settembre, è ancora in programmazione e ha raggranellato un incasso più che milionario. Diciamo la verità: non ci avrebbe creduto nessuno. In un momento difficilissimo per il cinema, con la disabitudine a frequentare le sale che il covid ha sancito, un film su Dante, senza divi americani a far da richiamo, opera di un regista molto apprezzato all’interno di una nicchia ma non certo l’autore che suscita l’entusiasmo delle masse, sembrava un’idea suicida. Il classico film destinato a riempire ben presto una serata della Rai o a sopravvivere in proiezioni organizzate per gli studenti delle superiori in orario scolastico.

Invece è successo proprio il contrario.

Il film ha camminato con le sue gambe, nelle sale non ancora frequentatissime dopo i due anni terribili ma tutt’altro che deserte in un’occasione non propriamente di facile consumo. Un più che discreto successo di pubblico che premia un film di notevole qualità. Anche su questo piano, la strada non era per niente facile.

La materia era complessa: da un lato occorreva evitare qualsiasi scivolata nel didascalico, dall’altro si trattava di coniugare lo stile inconfondibile di un autore, il suo universo poetico con quello di Dante senza tradire né l’uno né l’altro, né avatizzare troppo Dante, né dantizzare troppo Avati. Missione compiuta.

Secondo parte della critica ciò è avvenuto perché il regista ha rispolverato quella sua vena horror che gli aveva consentito di realizzare alcune opere molto originali nei suoi primi anni di lavoro. Personalmente, non amando molto quel cinema di Avati e preferendogli di gran lunga la vena poetica espressa in affreschi minimalisti padani, non sono molto convinto di questa lettura critica. Tanto più che quando Avati si è riaccostato all’horror nel recente Il signor Diavolo l’esito non è stato affatto brillante.

Credo invece che la riuscita del film sia dovuta alla scelta di raccontare e celebrare l’Alighieri attraverso Boccaccio e il viaggio che egli compie per consegnare alla figlia di Dante, suora in un convento di Ravenna, un sacchetto di fiorini quale ricompensa per i torti che il padre ha subito a Firenze. Le tappe del viaggio e gli incontri che si succedono lungo la strada innescano i flashback che rievocano i momenti più delicati e drammatici della vita del poeta. Più che un horror ne nasce una sorta di road movie (persino un po’ di western in certi punti), molto originale in cui immagini naturalistiche molto lontane dalla classica iconografia dantesca si alternano a soluzioni figurative di grande intensità poetica.

È andato tutto bene, dunque?

No, non tutto, perché di fronte a un film di tale originalità su una figura come quella di Dante e quello che rappresenta nella storia della nazione, avrei pensato che si sarebbe acceso un dibattito pubblico, sulle pagine dei giornali, nelle tv, sui social, negli spazi della cultura.

Una discussione sul film appassionata, magari anche con rilievi negativi, persino stroncature, ma ampia, coinvolgente. Invece nulla, solo qualche recensione di prammatica e qualche accenno di prevedibile scontento nell’ambito ristretto delle riviste cinefile on line. I cinefili più puri hanno preferito dividersi tra entusiasti e disgustati su Blonde il nuovo biopic su Marylin Monroe, gli osservatori della vita culturale più in generale erano forse troppo distratti dalle elezioni. Ma tutto ciò non è un bel segno.

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