Il referendum disconnesso dal Paese

Sergio Baraldi

La sconfitta nel referendum peserà sull’opposizione. La segretaria del Pd, Elly Schlein, gli altri leader hanno tentato una benevola razionalizzazione del voto. Propongono una lettura non del tutto negativa del risultato, rilanciando l’idea (non nuova) della partecipazione come resistenza a un quadro politico dominante, che si vorrebbe rovesciare. Secondo questa narrazione, gli oltre 12 milioni di elettori che hanno votato per il sì costituirebbero la base da cui rilanciare l’azione politica. Bisogna superare lo sconfittismo come l’ha definito Pier Luigi Bersani. Si tratta di una reazione comprensibile dal punto di vista psicologico, ma che non tiene conto del fatto che ogni voto ha una sua storia e che non considera le contraddizioni del referendum, gli effetti della sconfitta, i problemi aperti per l’opposizione.

Il tentativo fallito di costruire un nuovo soggetto collettivo
Gli elettori sono stati chiamati a votare contro una normativa in gran parte varata dai passati governi di centrosinistra. Questa contraddizione rivela l’idea di fondo che ha  ispirato Landini, Schlein e Conte: il referendum avrebbe dovuto rendere operante lo spostamento del baricentro politico del centrosinistra su una posizione contrapposta all’esperienza dei governi passati. Non solo Monti con Fornero e Bersani in ruoli chiave, ma soprattutto Renzi e Gentiloni. Il tentativo era di far emergere un soggetto collettivo con un’identità in parte nuova, che avrebbe dovuto fondare sulla rottura con i propri governi la legittimità della linea massimalista della Cgil e di quella movimentista del Pd di Schlein. Nelle loro intenzioni il voto avrebbe dovuto svolgere la funzione di un congresso postumo per chiudere i conti con l’eredità riformista di Matteo Renzi.

Nello stesso tempo doveva consolidare la collocazione di Pd, M5S, Avs, come partiti che difendono il lavoro. Collocazione che i riformisti sono accusati di avere abbandonato. Sinistra e M5S, in effetti, hanno richiamato molti elettori, non si sa fino a che punto consapevoli della posta politica interna all’opposizione. Ma il quorum non è stato raggiunto, l’affluenza si è fermata al 30,5%. Una sconfitta, annunciata dai sondaggi, che ha prodotto un’altra conseguenza: sono diventati visibili i limiti che l’opposizione incontra nella mobilitazione dei cittadini, nel chiamarli alla partecipazione.

Eppure, si trattava di delineare una politica del lavoro in controtendenza rispetto al passato. Il messaggio implicito dei referendum consisteva nel rafforzare alcune tutele per i lavoratori, abrogando norme del Job act. Tutele che non avrebbero determinato una svolta, ma che avrebbero offerto una maggiore protezione ai dipendenti e inviato un monito a governo e imprese. La sfida era pensata per costruire su questa piattaforma un’alternativa da utilizzare alle elezioni politiche. I cittadini sono stati invitati a partecipare per indicare un modello di sviluppo diverso.

La divaricazione tra agenda del referendum e agenda dei cittadini
L’opposizione, tuttavia, non è riuscita a costruire un’azione collettiva in grado di coinvolgere elettori di ogni orientamento. E far progredire tutta la società. Il referendum era concepito come un’azione dal basso in grado di indirizzare la politica governativa e ridisegnare il quadro politico nazionale. Invece si è rivelato disconnesso dal sentire profondo del Paese.

Dove va ricercata la causa della sconfitta? Forse nello spostamento a sinistra? Non è un’ipotesi del tutto convincente. I promotori hanno utilizzato uno strumento di democrazia diretta per contenere le spinte di un capitalismo che esaspera la ricerca del profitto e per ridurre la tendenza alla mercificazione del lavoro. Affermavano una concezione della società più equa e solidale. Si può non essere d’accordo, ma forse non al punto da disertare per questa ragione le urne. Per motivare il disimpegno di una così ampia maggioranza, l’insuccesso deve avere un’altra origine.

Forse è stata decisiva la valutazione sbagliata del contesto sociale e politico, che comprende gli atteggiamenti, i comportamenti, i valori, gli interessi dei cittadini. È la relazione tra opposizione e società che dovrebbe essere meglio compresa. Landini e la Schlein hanno investito risorse in una narrazione che politicizzava e drammatizzava la precarietà del lavoro, la perdita di diritti, i rischi di licenziamento, l’ascesa di un capitalismo dello sfruttamento. Ma la maggioranza degli elettori non sembra persuasa di vivere in un simile contesto.

I problemi per il lavoro non mancano, ma quelli percepiti come urgenti sono differenti. Innanzitutto, il tema principale è il lavoro povero, che offre bassi salari anche ai giovani laureati. Da segnalare lo studio di un gruppo di docenti di diverse università, coordinati dalla professoressa Marina Brollo, che focalizza questo argomento: Dal lavoro povero al lavoro dignitoso. Politiche, strumenti, proposte (Adapt University press 2024). Poi c’è la difficoltà di rinnovare i contratti: il 50% è scaduto da tempo. Pesa la riduzione del potere di acquisto delle famiglie. Il ceto medio in particolare è penalizzato dal fiscal drag. È influente la questione del potere di mercato delle aziende sul mercato del lavoro. È sentita la questione della sicurezza.

La narrazione di Landini, Schlein, Conte non ha messo al centro del referendum questi nodi. E non si è verificata la «partecipazione strumentale», come la definiscono gli studiosi, in cui i cittadini intervengono per proteggere i propri interessi minacciati. Forse c’è stata una limitata «partecipazione espressiva o simbolica», in cui l’elettore intende affermare la propria identità politica ed essere riconosciuto. Tradotto in termini di schieramento: hanno votato soprattutto elettori di sinistra, una quota piccola di elettori di destra, si sono astenuti gran parte dei progressisti moderati e dei conservatori.

La rappresentanza generale dell’opposizione indebolita
In queste condizioni, era inevitabile che si creasse una divaricazione tra l’agenda dei referendum e l’agenda dei cittadini. Molti elettori hanno percepito la sfida referendaria come estranea alle proprie istanze e alla propria esperienza. L’incomunicabilità delle due agende però ha messo a nudo l’incertezza dell’opposizione sul ruolo che deve assumere. Le forze politiche sono la cinghia di trasmissione tra la società e le istituzioni. Se l’area progressista organizza un referendum su un’agenda che gli elettori non riconoscono, quale capacità possiamo attribuirle di interpretare il Paese? Sia Landini (il maggiore sindacato) sia la Schlein (il maggiore partito) non hanno intercettato le domande sociali più sentite in tema di lavoro. Così il referendum non è stato vissuto come un canale di espressione e di partecipazione di istanze reali.

Il mancato coinvolgimento degli elettori chiama in causa la responsiveness dei partiti organizzatori, vale a dire la loro capacità di raccogliere preferenze e bisogni dei cittadini. Il referendum, quindi, ha mostrato un’area progressista poco ricettiva rispetto alle istanze dei governati e  poco attrezzata a svolgere quella funzione di filtro e di gerarchizzazione dei problemi, che le forze politiche responsabili dovrebbero svolgere. L’interazione tra opposizione e società ha subito un cortocircuito. Ha evidenziato una perdita di rappresentatività del centrosinistra, cioè della capacità di rispecchiare la società civile e le sue aspettative. Il referendum avrebbe dovuto rilanciare la rappresentanza generale dell’opposizione in vista delle politiche. È accaduto il contrario: ha reso visibile la distanza tra promotori e cittadini. E così ha indebolito la rappresentanza generale del centrosinistra.

Una minoranza che non sa diventare maggioranza
La sconfitta del referendum, quindi, segna l’insuccesso di una strategia politica che puntava al coinvolgimento degli elettori su un tema ritenuto popolare e a canalizzare a favore dei partiti referendari una consistente partecipazione. La vittoria avrebbe offerto ai promotori un vantaggio competitivo sulla maggioranza di governo. Non a caso la premier Meloni con un video ironico ha poi finto di lamentarsi del fatto che l’opposizione la «voleva condannare a restare per dieci anni» a Palazzo Chigi. I giochi non sono affatto conclusi. Ma il centrosinistra non è riuscito a modificare i rapporti di forza del consenso, e ora deve affrontare un problema di non agevole soluzione: essere una minoranza che non sa (ancora) diventare una maggioranza. La sinistra che ha guidato il referendum non è entrata in sintonia con le paure, i timori, le richieste di tanti cittadini, come dimostra anche il 30% di no sulla cittadinanza. Il campo progressista sembra avere difficoltà a parlare a tutto il Paese. Se non è riuscito su un tema nevralgico come il lavoro, ci riuscirà alle politiche?

Una riflessione s’impone sulla perdita di competitività. Ma occorre osservare che il centrosinistra sembra avere una capacità competitiva a due livelli: insufficiente a livello nazionale, perché non riesce a guadagnare consensi al di fuori del suo tradizionale perimetro, ma efficace a livello locale. Forse è ai territori che dovrebbe volgere lo sguardo, dove sono emerse nuove leadership, nuove classi dirigenti, un nuovo stile politico nel rapporto con i cittadini. E i risultati non mancano. Così il referendum disconnesso dal Paese potrebbe imprimere due opposti movimenti: o una spinta a cambiare e a riconfigurare l’opposizione, oppure a rinchiudersi nei propri confini identitari.

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