La Giornata Mondiale della Terra e le ombre sinistre della guerra

Antonia Carparelli

Il 22 aprile è la Giornata Mondiale della Terra, Earth Day. Una ricorrenza delle Nazioni Unite, riconosciuta da 193 Paesi, molti dei quali hanno pensato di estenderne l’arco temporale, portandolo a una settimana di impegno e di mobilitazione.

Ci sono voluti diversi decenni per costruire un consenso e una partecipazione così estesa.

La prima Giornata della Terra risale al 1970, 52 anni fa, e fu il risultato dell’impegno di forze politiche e di vaste aree della società civile statunitensi. Nel corso degli anni Sessanta gli incidenti ambientali con impatti disastrosi si erano moltiplicati, e questo aveva creato una crescente consapevolezza dei rischi e delle ferite che l’attività umana infliggeva alla natura. Nel 1962 la biologa Rachel Carson aveva pubblicato il suo libro Primavera Silenziosa che ebbe un successo di pubblico straordinario e divenne ben presto una sorta di manifesto dei primi movimenti ambientalisti. Negli anni successivi le iniziative e le organizzazioni per la protezione dell’ambiente crebbero in ogni parte degli Stati Uniti e il 22 aprile 1970 la prima Giornata della Terra portò milioni di americani a incontrarsi nelle piazze e in luoghi pubblici per chiedere con forza azioni in difesa della terra e delle risorse naturali.

Oggi si stima che il numero di persone coinvolte in questi eventi superi il miliardo, in tutti gli angoli del globo.

Ci sarebbe motivo di rallegrarsi per il radicarsi e il diffondersi di questa coscienza ambientale, se non fosse che questa crescita di consapevolezza è anche il riflesso del grave e crescente malessere del pianeta, per effetto dell’accresciuto potenziale distruttivo di molte attività umane e di un uso sempre più insostenibile delle risorse naturali. Il cambiamento climatico è la manifestazione più macroscopica e più allarmante di questo malessere. Come tutte le malattie, il cambiamento climatico interagisce, con rapporti di causa ed effetto, con molte altre: la perdita di biodiversità, la desertificazione, la riduzione delle aree destinate alle foreste e all’agricoltura, l’inquinamento dei mari e degli oceani, il prosciugamento dei fiumi e la scarsità di acqua dolce, la ricorrenza di eventi estremi e l’elenco potrebbe continuare.

Il set di indicatori sul clima messo a punto di recente dal Fondo Monetario Internazionale in collaborazione con altre istituzioni internazionali illustra in modo eloquente la tendenza al surriscaldamento del pianeta e le sue conseguenze devastanti. Già nel corso degli anni Ottanta, ma soprattutto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso e in misura crescente nei primi due decenni del nuovo secolo, la temperatura media per anno meteorologico è andata sensibilmente aumentando. Rispetto agli anni Sessanta del secolo scorso, l’incremento della temperatura media è di circa 1°C nel primo decennio di questo secolo e si è avvicinato a 1,5°C nel secondo decennio.

Cambiamento della temperatura media per anno meteorologico

 

Cambiamento della temperatura media per anno meteorologicoIn parallelo, è aumentata drammaticamente la frequenza dei disastri naturali, in primo luogo delle alluvioni, ma anche delle tempeste e degli uragani, delle siccità, degli incendi, delle valanghe, delle temperature estreme. All’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso si contavano ogni anno un centinaio o poco più di questi eventi; nella media degli anni Novanta questa cifra è raddoppiata e negli ultimi venti anni è rimasta sempre al di sopra di 300, avvicinandosi spesso alla soglia dei 400. Non abbiamo dati che consentano di quantificare i costi di ogni singolo evento, anche in termini di vite umane, ma non mancano indizi validi per affermare che anche la gravità dei singoli eventi si è accentuata.

Frequenza dei disastri naturali

Frequenza dei disastri naturaliDa tempo la scienza ha messo in relazione il riscaldamento terrestre con le emissioni dei gas cosiddetti a effetto serra: principalmente l’anidride carbonica (CO2) e il metano, insieme ad altri con incidenza minore. Da alcuni decenni i dati prodotti da scienziati di tutto il mondo vengono raccolti e vagliati dall’IPPC, (Intergovernmental Panel on Climate Change), il forum scientifico istituito nell’ambito delle Nazioni Unite per studiare il riscaldamento globale. E tutti i dati convergono nell’indicare che l’aumento della temperatura del pianeta è in larga misura il risultato delle emissioni prodotte dalle attività umane.

Nel 1992, dopo il Summit della Terra di Rio de Janeiro, ben 154 paesi aderirono alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che costituisce il riferimento internazionale per la lotta ai cambiamenti climatici. Sia pure con risultati alterni, il processo negoziale nell’ambito della Convenzione è andato molto avanti e le varie Conferenze delle Parti o COP (finora 26 in tutto, con l’ultima a Glasgow nel novembre scorso) sono approdate a risultati importanti, quali il Protocollo di Kyoto del 1997 e i più recenti Accordi di Parigi del 2015. A Parigi i governi firmatari si sono impegnati a contenere l’aumento della temperatura al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, e a compiere sforzi per limitare questo aumento a 1,5°C, in modo da poter raggiungere la neutralità climatica (ovvero zero emissioni nette) nella seconda metà del secolo.

Nonostante questi impegni, le emissioni annuali di gas a effetto serra (misurati in equivalenti di CO2) hanno continuato a crescere negli ultimi dieci anni, fino a superare i 50 miliardi di tonnellate nel 2019, un valore circa doppio rispetto al valore di riferimento del 1990, mentre la flessione del 2020 è dovuta alla drastica caduta delle attività produttive provocata dalla pandemia.

Emissioni annuali di gas a effetto serra

 

 

 

 

 

 

 

L’IPPC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il forum scientifico istituito nell’ambito delle Nazioni Unite per studiare il riscaldamento globale, ha pubblicato da poco, il 4 aprile scorso, l’ultima parte del suo Sesto Rapporto sul cambiamento climatico, ad uso dei responsabili politici e della comunità scientifica.

Il rapporto è strutturato in tre parti, che coprono rispettivamente: le cause dei cambiamenti climatici; l’impatto, le vulnerabilità e le politiche di adattamento; le politiche di mitigazione e il taglio delle emissioni.

Si tratta di una mole di lavoro impressionante, la cui lettura richiede una buona dose di conoscenze tecniche, ma gli esperti dell’IPCC non hanno mancato di far pervenire i loro messaggi chiave al grande pubblico, attraverso conferenze stampa e materiali esplicativi, messaggi che possono riassumersi, molto in sintesi, nel modo che segue. Quanto alle cause, il rapporto mostra che le emissioni derivanti dalle attività umane sono la causa dell’aumento della temperatura del globo di circa 1,1°C dalla metà del 1800 e che nella media dei prossimi vent’anni questo aumento sarà pari o superiore  a  1,5°C. Sull’impatto, il rapporto mostra che già un aumento della temperatura di 1,5°C espone a rischi climatici multipli e interrelati e che il superamento anche solo temporaneo di questa soglia potrà portare a conseguenze molto gravi, e in qualche caso irreversibili. Senza interventi immediati, rapidi e di ampia portata per ridurre le emissioni di gas a effetto serra gli obiettivi definiti a Parigi non potranno essere raggiunti.

L’IPPC condenserà e affinerà i suoi messaggi in un documento di sintesi che sarà reso pubblico a ottobre prossimo. Il documento sarà un punto di riferimento importante per la prossima conferenza delle parti (COP 27), che dovrebbe tenersi in Egitto, a Sharm El-Sheikh, dal 7 al 18 novembre 2022.

Una scadenza della massima importanza che si spera fornisca soluzioni ai problemi rimasti irrisolti dalla COP 26 di Glasgow. La conferenza di Glasgow ha segnato un progresso importante, perché le parti hanno concordato sull’esigenza imperativa di contenere l’aumento della temperatura all’1,5°C. Ma molto resta da fare per definire le misure concrete, anche di natura finanziaria, per rendere quest’impegno operativo e vincolante. Tradurre le parole in azioni: è questo di cui dovrebbe occuparsi la COP27.

Ma sotto quali auspici prenderà il via la conferenza di Sharm El-Sheick?

Il contesto internazionale che si è venuto delineando dopo l’attacco della Russia all’Ucraina getta ombre sinistre sui prossimi negoziati. La guerra, oltre ai costi enormi in termini di vite umane, di distruzioni e di probabili arretramenti sugli obiettivi ambientali, infligge un colpo terribile alla cooperazione internazionale. E senza la cooperazione internazionale non è possibile avanzare nella lotta ai cambiamenti climatici.

Le politiche per la difesa della Terra e quelle per la pace sono parti essenziali e interconnesse di un’unica agenda, che ha a che fare con la sopravvivenza dell’umanità e con la sua capacità di convivenza pacifica. Non a caso, uno degli ideatori e più convinti proponenti della giornata della terra, oltre cinquant’anni fa, fu l’attivista statunitense John McConnell, che unì il suo fervente impegno per la pace a quello per la difesa dell’ambiente. Ricordare oggi queste origini non è solo rendere omaggio a una figura di spicco della sostenibilità sociale e ambientale, ma aprire uno squarcio su uno dei tanti fili che legano il destino dell’umanità nel suo insieme.

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