La piazza con la questione palestinese è tornata ad essere un luogo politico nell’era digitale. Ma forse si rischia di commettere un errore a considerarla come l’unico termometro in grado di misurare quello che Abraham Lincoln, in un discorso del 1858, ha definito il sentimento pubblico. La mobilitazione per Gaza si è rivelata un successo, nonostante qualche grave episodio di violenza. Quando decine di migliaia di cittadini e di giovani manifestano o scioperano liberamente, pacificamente, esprimono un desiderio di partecipazione che rende viva la democrazia. Ma proprio questo successo solleva questioni che consigliano di decifrare con attenzione la logica che per ora sembra guidare il Paese.
La minoranza parlamentare si scopre maggioranza nell’opinione
L’opposizione per la prima volta si è trovata in sintonia con larga parte dell’opinione pubblica, in particolare con i giovani. La minoranza parlamentare del Paese ha scoperto quella che gli studiosi definiscono un’ampia risonanza sociale. Si tratta del fenomeno per cui idee, valori, emozioni, atteggiamenti si diffondono quasi per contagio sociale, si amplificano, trovano accoglienza nella società e influenzano il modo di sentire e pensare delle persone. La Schlein ha agganciato con prontezza quel movimento d’opinione, non strutturato ma diffuso, e ha ottenuto una risonanza sociale inattesa. Per la prima volta l’opposizione si è sincronizzata con una larga parte del pubblico. La distanza dei cortei da Palazzo Chigi, allineata con Trump e Netanyahu, è stata resa visibile. La vicinanza tra l’opposizione e quella parte del pubblico è stata rimarcata. Per un giorno la minoranza in Parlamento si è ritrovata maggioranza nel sentimento pubblico, la maggioranza al governo minoranza. Questo rovesciamento di prospettiva ha ribaltato temporaneamente l’immaginario collettivo, oscurando il fatto che in democrazia decidono i voti nell’urna. La piazza piena ha modificato la percezione della realtà politica. Le elezioni nelle Marche e in Calabria si sono incaricate di ricordarlo.
Ma quello scarto rispetto il sentimento pubblico, un problema l’ha sollevato alla Meloni. L’aggressività verbale con cui la premier ha attaccato sciopero e manifestanti rivela che l’inquilina di Palazzo Chigi ha colto che si è aperta una competizione per la risonanza sociale. I cortei hanno rammentato alla premier che non si è rilevanti per la comunicazione e le immagini, che lei cura con grande attenzione attraverso l’occupazione delle reti televisive (soprattutto la Rai) e inondando i social di video in cui parla da sola. Quello che conta è la connessione emotiva, il legame di fiducia che si stabilisce con l’opinione pubblica, che nasce da un’identificazione, un riconoscimento da parte dei cittadini.
La risposta contro-egemonica della premier
La piazza per Gaza e i cortei affollati hanno rotto l’incantesimo comunicativo della Meloni, perché hanno assegnato ad altri attori, ad altre questioni, la titolarità dell’agenda politica italiana. Hanno selezionato altre priorità. E hanno cambiato il linguaggio pubblico, costringendo il centrodestra a tenerne conto. L’attacco persino offensivo della Meloni sembra avere questo significato: se la Schlein ha deciso di sincronizzarsi sulla lunghezza d’onda della novità rappresentata dal movimento, la premier ha colto il suo rischio. E ha fatto il contrario per delegittimarlo.
La storia che ha raccontato al pubblico su Gaza e la Flotilla, le bandiere e i simboli che ha usato (americani e israeliani), tutto il suo dispositivo interpretativo non ha fatto presa sul discorso pubblico. I normali cittadini hanno avuto una percezione molto diversa. Come ha spiegato il sociologico Bourdieu, la leadership è tale se impone «la visione legittima del mondo sociale». La Meloni ancora non c’è riuscita, nonostante il dispiego di mezzi. A farla retrocedere più che la Schlein sono stati i cittadini comuni che hanno rinunciato a un giorno di stipendio per scioperare, o i giovani che hanno disertato le aule per far sentire la loro voce. Ecco il messaggio di quei raduni. La risonanza sociale attribuisce una sorta di legittimazione.
Alla Meloni, che vorrebbe diventare un partito mainstream, ancora manca: la piazza può diventare uno specchio delle mie brame. Di fronte al rischio di una narrazione egemonica dei cortei che dissentono, la Meloni ha avviato la sua risposta contro-egemonica. E ha messo in scena un registro che conosce bene: quello antagonista populista. Ha diviso la società in due gruppi: noi contro loro. Ha identificato un nemico: scioperanti, opposizione. Li ha descritti come se fossero parte dell’establishment che vuole «un week end lungo». Ha politicizzato il risentimento per i disagi creati dagli «irresponsabili». Anche le sue «cattive maniere» rientrano nel registro populista: un linguaggio emotivo, crudo, serve a rafforzare una relazione di somiglianza con il popolo.
Inoltre, la Meloni ha colto un elemento nel voto delle Marche: una parte degli elettori moderati di Renzi, Calenda e Bonino o che avevano votato il Pd (ne ha persi in tutto 40 mila) hanno scelto il candidato di centrodestra. La premier, cioè, ha valutato che l’opposizione ha una vulnerabilità reale al centro, presso i settori moderati e cattolici, che non sembrano apprezzare un Pd sbilanciato a sinistra e ora diventato movimentista, persino contro la sua tradizione (e del Pci). La premier conta probabilmente sul fatto che il piano di Trump e di Blair vada avanti, possa funzionare, rafforzando la sua posizione di sostegno a quella soluzione. Tuttavia, la risonanza sociale è un mezzo che consente a un leader di avanzare una «representative claim», una pretesa di rappresentanza. Che vuol dire indicare orientamenti di valori che trovano eco tra i cittadini, definire la comunità, delineare una identità possibile nella quale gli elettori si rispecchino. Per ora questa operazione non sembra portata a compimento dalla premier, nonostante le vittorie nelle due elezioni regionali. Ma la Meloni sa come andarsi a prendere i propri elettori. Ci riproverà.
La sfida al centrosinistra: uscire dallo stato di minorità
Tuttavia, la piazza affollata di Gaza interpella anche, e forse soprattutto, l’opposizione. La sintonia con tanti cittadini offre al centrosinistra l’opportunità di aggregare e articolare una pluralità di interessi e valori. Il campo largo sperimenta una condizione nella quale può cercare di rappresentare domande sociali frammentate, insoddisfatte, che non trovano un canale per esprimersi, ma che circolano nella società e chiedono ascolto.
Come per i palestinesi. La solidarietà per quel popolo era stata sottovalutata da partiti e governo, invece, l’ha raccolta la Cgil di Landini, che così sembra candidarsi a un ruolo di potenziale leader dell’opposizione, anche se rischia di trasformare il sindacato in un soggetto politico. Tuttavia, non c’è solo Gaza. Esistono altri temi, altre fratture rilevanti di cui l’opposizione parla poco o per le quali non organizza battaglie che toccano il sentire pubblico.
In effetti il centrosinistra non ha chiarito bene a quale base sociale intende rivolgersi per poi portare in primo piano i suoi problemi, le sue domande. A nome di chi parla l’opposizione? Per fare cosa? La piazza di Gaza fa capire che ci sono altri cittadini che si sentono esclusi dalla chiamata e che forse desiderano che arrivi il loro momento di essere protagonisti. Di potere tornare a contare. Il centrosinistra sembra connesso bene con l’attualità, quasi che sia una redazione di giornale. Ma inseguire una piazza non è sufficiente a delineare una alternativa praticabile.
I leader dell’opposizione non riescono a far emergere e a strutturare in una visione il malessere diffuso del Paese, che spinge tanti, troppi a non votare. In una società dominata dalla disillusione e dal cinismo, l’opposizione non riesce a scrivere un’agenda in grado di ribaltare le aspettative, di riguadagnare il futuro.
Non c’è solo la Palestina. E Kiev dove muoiono anche lì bambini e civili inermi? E cosa dice l’opposizione sulla sicurezza e su altri capitoli? Gaza non è una protesta, è una sorpresa, che spiega qualcosa: le emozioni riempiono le piazze, ma poi occorre un progetto solido, convincente per il Paese che indichi la direzione. E possibilmente riempia le urne.
Occorre intanto conoscere e ascoltare l’elettorato nelle sue differenze. È l’offerta, non solo l’unità dell’alleanza, o il recupero di vecchi slogan rassicuranti della sinistra, il punto di partenza per tentare di mobilitare gli elettori. I limiti della attuale classe dirigente del centrosinistra cominciano ad apparire. La sfida dei cortei al campo progressista riguarda proprio questo difficile compito: rinnovarsi a quasi vent’anni dall’ultima vittoria elettorale. Il centrosinistra, ammonisce la piazza, esca dallo stato di minorità politica.
