La tv di Baudo, nazionale e popolare, spettacolo delle competenze

Sebastiano Pucciarelli

Si può fare una tv nazionale e popolare nel senso migliore dei due aggettivi, come li intendeva Gramsci quando auspicava una letteratura che fosse «elemento attuale di civiltà, […] di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente» da un popolo?

Cinquanta anni dopo, nel 1987, l’etichetta di nazionalpopolare venne usata dal presidente della Rai, Enrico Manca, per criticare i programmi di Pippo Baudo. Lui, che ambiva proprio a quell’idea di intrattenimento accessibile ma di qualità, se la prese moltissimo e rispose in diretta da uno dei suoi show più popolari (Fantastico): «Vuol dire che d’ora in poi farò programmi regionali e impopolari».

Cosa resta oggi, novant’anni dopo quelle parole di Gramsci e a poche settimane dalla scomparsa di Superpippo, della ambizione generalista di parlare a tutti, senza per questo svilire l’offerta televisiva?

Ce lo siamo chiesti sabato nella cittadina pugliese di Putignano, nuovo teatro del festival Lector in fabula (che continua in questi giorni nella storica sede di Conversano). Piccola parentesi: ci pare un bel segnale che una giovane amministrazione comunale (il sindaco è del 1993!), invece di lanciare l’ennesima kermesse in competizione col campanile accanto, adotti e amplifichi un festival consolidato come Lector.

Tornando ai temi dell’incontro di Putignano, che ha visto conversare noi di TV Talk (Mia Ceran, il prof. Giorgio Simonelli e il sottoscritto) affiancati da Darwin Pastorin e coordinati da Oscar Buonamano, un punto ci pare di averlo messo a fuoco, alla partenza della prima stagione orfana di Baudo.

Sintetizzando brutalmente: il rischio di interpretare al ribasso quella concezione nobile di nazionalpopolare. Perché anche oggi alcune delle trasmissioni più seguite incarnano certi tratti nazionali, ma troppo spesso assecondando quelli più deleteri.

La tv di Baudo, che non era certo quella ironica e geniale di Arbore, e talvolta sfiorava il paternalismo e la banalizzazione, cionondimeno incarnava un ideale di eccellenza, una spinta a innalzare il livello estetico e culturale del pubblico. L’impianto teatrale, i grandi ospiti italiani e internazionali, la scoperta e la valorizzazione di nuovi campioni del canto, della danza e della comicità… tutto ciò concorreva a uno spettacolo delle competenze.

Prendete invece il fenomeno Temptation Island, ma anche l’inarrestabile dilagare dei talk show politici di presunto approfondimento e dei magazine di cronaca nera di presunta indagine (due fronti che contano ulteriori innesti nel palinsesto ’25-’26): anche in questi casi si fa leva su peculiarità spiccatamente italiane, ma si punta sullo spettacolo della realtà, inseguendo inclinazioni e derive che mai avrebbero trovato spazio nella tv baudesca. Là dominavano studio, professionismo e democristiana ricomposizione di tendenze e tensioni (anche sociopolitiche, come quando Baudo ospitò all’Ariston gli operai dell’Italsider); qui regnano improvvisazione, rissosità e voyeurismo delle disgrazie altrui. Ecco l’adeguamento al gusto popolare, ma verso il basso.

E allora torna alla mente uno dei pochi sfoghi pubblici del sempre impeccabile e misurato Pippo, che però non sapeva rassegnarsi alla tv sbracata dei reality. Era il Sanremo del 2008 (con Piero Chiambretti, Bianca Guaccero e Andrea Osvart), e in sala stampa rispose così a chi imputava il calo di ascolti al fatto di proporre un festival all’antica, di qualità ma noioso: «Pigliamoci a pesci in faccia, sputiamoci in faccia, facciamo tutto quello che possiamo perché così serviamo il pubblico. E no, così lo imbarbariamo, così il pubblico lo fottiamoe avremo un’Italia di merda».

Certo, oggi come allora non mancano le eccezioni, ma il confronto tra le diverse fasi del baudismo e i protagonisti della tv contemporanea resta impietoso. La tv non è mai la verità, ma, come da vent’anni cerchiamo di fare a TV Talk, resta un ottimo punto di osservazione del presente.


La foto che accompagna l’articolo è di Fabio Francesco Barletta

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