Tralasciando il quesito referendario dell’8 e 9 giugno sulla cittadinanza, i cui obiettivi, peraltro, ho pienamente condiviso, la situazione su quelli relativi al lavoro è sostanzialmente questa.
Il PD sostiene un referendum che intende abrogare parte di una riforma fatta da un Governo del PD e adesso il PD risulta sconfitto perché la riforma del PD resta in vigore.
Non è poco, ma non è tutto. Ad urne chiuse diversi esponenti del partito ed in generale dell’opposizione, hanno favoleggiato su una immaginaria vittoria e hanno dichiarato che gli elettori che hanno scelto di andare a votare (30,5% del totale, ma bisognerebbe calcolare, ovviamente, solo i “sì”, comunque ampiamente in maggioranza) non sono affatto pochi e sono voti contro il Governo.
Peccato che il Governo in carica con il Jobs act non c’entri nulla, quindi non si capisce il ragionamento; ma, a parte questo, appropiarsi dell’elettorato è un’operazione indimostrata e indimostrabile, oltre che scorretta verso gli elettori. Si vota su un tema e l’oggetto del referendum è quello e basta. Verosimilmente la maggioranza dei sì è stata espressa da elettori di sinistra, ma il sillogismo resta del tutto arbitrario.
Insomma, astrusi ragionamenti, alibi, risentimenti, scaricabarile. Aria fritta. C’è solo una cosa seria e vera in tutto questo: il PD ha sostenuto un referendum contro una legge dal PD voluta, ma annunciando curiosamente un avviso di sfratto al Governo (detto fra parentesi, una riforma così organica e sistemica come il Jobs act non sarebbe stata neppure alla portata dell’Esecutivo che ci ritroviamo).
Damnatio memoriae? Resa dei conti interna? Possibile. Probabile.
Molte ambiguità anche sui contenuti. È lecito ritenere che le persone che si sono recate al seggio pensassero che votando sì sarebbe tornato in vigore l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Falso. Sarebbe tornata in vigore la legge Fornero, che già aveva fortemente ridimensionato l’articolo 18. E che non ci sarebbero più stati, o quasi, contratti di lavoro a breve termine. Non è vero. Pensare di abolire la temporaneità del lavoro (la precarietà) per legge, o abolendo un articolo di legge, è a dir poco bizzarro. Ma gli slogan utilizzati dai promotori in campagna elettorale, invece, promettevano questo, o almeno lo lasciavano intendere.
Nel 2024, su 1.000 lavoratori con contratti a tempo indeterminato, ne sono stati licenziati appena 44. Nel 2014 erano 70. Non è vero che si licenzia come se nulla fosse e comunque molto meno che 10 anni fa; ed i contratti a tempo indeterminato, dal 2015 in poi, sono sempre cresciuti. La percentuale di lavoratori licenziati con contratto a tempo indeterminato che trova un altro impiego entro sei mesi è salita dal 30% del 2014 al 46% del 2024.
Non si spiega dunque come i promotori dei referendum volevano farci tornare a quando le cose andavano peggio. Non c’è un filo logico, non c’è un progetto serio che guardi all’avvenire in tutto questo, non c’è niente. Ci sono solo slogan vuoti e inconcludenti.
I tanti giovani che lasciano l’Italia, soprattutto il Sud, per lavorare all’estero cercano ambienti di lavoro più performanti dove poter crescere, cercano un impiego di qualità, cercano migliori gratificazioni e più alte retribuzioni. Non cercano l’articolo 18. E quand’anche lo cercassero, non lo troverebbero in nessun altro Paese.