Neve Shalom Wahat al-Salam, speranza di pace

Giulia Ceccutti

«Come state vivendo oggi, al Villaggio, dopo due anni di guerra?». La domanda è rivolta a Shireen Najjar, che con la sua famiglia abita a Neve Shalom Wahat al-Salam (Oasi di pace in ebraico e arabo). Il villaggio, nato cinquant’anni fa, si trova su una collina tra Gerusalemme e Tel Aviv. È una comunità di famiglie, oggi un centinaio, metà ebree e metà palestinesi, tutte con cittadinanza israeliana. Hanno scelto di abitare fianco a fianco. Insieme prendono le decisioni, insieme crescono i propri figli, in parità e democrazia, nel bilinguismo, nella conoscenza e nel dialogo con l’altro.

Shireen, quarantacinque anni, è stata la prima bambina palestinese a nascere nella comunità. Oggi ha quattro figli, è impegnata in diversi comitati e lavora come facilitatrice della Scuola per la pace, educando al dialogo gruppi di israeliani e palestinesi.

«Non è facile rispondere, ma ci provo. Beh, la vita qui è ​​molto dolorosa. E con il passare del tempo ancora di più. La Striscia di Gaza è a una cinquantina di chilometri. Per due anni abbiamo sentito dalle nostre case l’eco dei bombardamenti. Avvertiamo tutti una profonda frustrazione. Ci chiediamo continuamente: cosa possiamo fare di più, per rispondere a tutta la violenza che ci circonda e che permea vari piani? Per noi qui non è facile. Né lo è per i palestinesi che vivono in Israele. Da due anni, come musulmana con indosso l’hijab, non mi sento a mio agio ad andare in giro. Solo un esempio: qualche giorno fa ero con alcune amiche, anche loro con l’hijab, in un supermercato di Mod’in (una città a pochi chilometri da Neve Shalom Wahat al-Salam, Ndr). Alcuni bambini hanno iniziato a sputarci addosso e insultarci dicendo: «Andatevene, arabe di merda». Questo è il clima in cui siamo immersi».

In occasione del Capodanno ebraico, Eldad Joffe, sindaco del Villaggio, ha mandato, come succede di solito per le feste di tutti, una cartolina di auguri, in ebraico e arabo, alle famiglie. Avrebbe voluto scrivere gli auguri di buon anno, ma «inizia un nuovo anno davvero infelice», continua Shireen. «Così, sulla cartolina c’era scritto che vicino a noi sono in corso una pulizia etnica, violenze e aggressioni, ma c’era anche un invito: a restare uniti, continuare a prenderci cura gli uni degli altri».

Dal 7 ottobre a oggi, Neve Shalom Wahat al-Salam ha attraversato una profonda crisi, determinata in primo luogo dai lutti e traumi che attraversano in prima persona le famiglie di entrambi i popoli. Nonostante il carico di dolore, la perdita di fiducia e le difficoltà inedite, nessuno però finora ha lasciato la comunità e ciò per cui è nata: essere una scuola per la pace, dall’interno del conflitto.

«Posso dire anche che al Villaggio la solidarietà tra noi è molto forte», conclude Shireen. «Dall’inizio della guerra cerchiamo di far sentire la nostra voce anche come comunità. Ci stiamo provando. Lo facciamo continuando a educare insieme, nell’apertura alle diverse identità, le bambine e i bambini, ebrei israeliani e palestinesi, alla scuola primaria. Lo facciamo grazie al lavoro pionieristico della Scuola per la pace: uno spazio sicuro nel quale ci sentiamo liberi di condividere le nostre opinioni e di lavorare sul conflitto, chiamando le cose con il loro nome, affrontando i nodi per ciascuna parte più difficili. Lo facciamo infine a livello personale. I modi sono tanti. Ciascuno ha il suo ambito di impegno. Di nuovo, non è facile. Ma tocca a noi farlo. Nessuno lo può fare al posto nostro. Andiamo avanti a lottare per ciò in cui crediamo. Per noi e per i nostri figli».


Per chi volesse approfondire
Giulia Ceccutti, Respirare il futuro. La sfida di Neve Shalom Wahat al-Salam, ITL Libri – In dialogo, Milano 2025

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