Premessa, non sono un esperto di pugilato, forse neanche un appassionato se non nei momenti in cui i personaggi e gli incontri della boxe entrano direttamente nella storia.
Duilio Loi protagonista delle prime grandi dirette televisive di eventi sportivi, Muhammad Alì che batte George Foreman a Kinshasa, The Rumble in the Jungle; Nino Benvenuti che si batte per tre volte nell’arco di un anno al Madison Square Garden di New York e alla fine conquista il titolo mondiale dei pesi medi. Gli italiani non poterono vedere le sue imprese perché la Rai ritenne inopportuno trasmettere un evento che si svolgeva quando in Italia erano le tre di notte, così tutti ascoltarono la radio e scoprirono il racconto indimenticabile di un grande radiocronista: Paolo Valenti.
Ma, per continuare con la sincerità, nei confronti di Benvenuti ho sempre provato un sentimento duplice, ambiguo: certo un grande atleta, un pugile dallo stile raffinatissimo da ammirare, ma come dimenticare le sue posizioni politiche per me inaccettabili. Poi mi capita di incontrarlo di persona.
Ci troviamo insieme sul finire degli anni Novanta a parlare delle analogie tra sport e teatro, ad Anghiari, in provincia di Arezzo, dove un grande accademico, Siro Ferrone, riunisce ogni anno sportivi, giornalisti e studiosi a parlare di quella che chiama la drammaturgia dello sport.
Nino Benvenuti parla del suo «incontro più bello», per chi volesse leggere quell’intervento è pubblicato dalla rivista Drammaturgia. È una strana scelta quella di Benvenuti: per lui l’incontro più bello non è quello delle Olimpiadi di Roma del 1960 quando conquistò la medaglia d’oro nei pesi welter, non è neppure quello nello stadio di San Siro, gremito, contro Sandro Mazzinghi. È uno dei tre incontri contro Emile Griffith, non uno dei due vinti, ma quello perso ai punti. Quello in cui fu ferito, tumefatto, in preda ad allucinazioni. Consapevole della sconfitta riesce ad arrivare alla fine dei quindici round, senza che i suoi secondi gettino la spugna.
Quello, disse, è il mio incontro più bello perché segnò una vittoria, la vittoria sulla sofferenza.
Facile pensare che ci fosse un po’ troppa retorica in quel discorso sulla sofferenza e sui suoi insegnamenti, su quell’idea di una pedagogia della sofferenza che mi provoca reazioni allergiche in qualunque contesto mi capiti di sentirla evocare. Però, forse, è il caso di guardare un po’ intorno a quella sofferenza tanto celebrata, alla sua origine e alle sue conseguenze, a chi la infliggeva, oltre a chi la subiva.
L’avversario Emile Griffith non era un pugile qualunque, su di lui pesava la fama di belva feroce dopo che un suo avversario era morto affrontandolo sul ring. Griffith non aveva nessuna responsabilità per quell’accaduto ma la triste fama gli era rimasta incollata.
Con Benvenuti le cose andarono in tutt’altro modo. Dopo tutte le botte scambiatesi in tre incontri i due restarono non solo amici, di più, si rincontrarono nelle occasioni dei festeggiamenti della vita familiare e quando Griffith attraversò varie traversie, economiche e di salute, Nino Benvenuti corse ad assisterlo e aiutarlo fino alla fine.
Una di quelle storie incredibili e vere che solo lo sport sa costruire e che non hanno bisogno di nessuna retorica.