La promozione dei referendum dell’8-9 giugno, specialmente a livello di partecipazione ed esito costituiscono, devono costituire, occasione di analisi aggiornata su diversi versanti.
L’esito parla da sé. La partecipazione è stata molto lontana dal quorum necessario e dunque per i promotori si tratta di una bocciatura; essendo mancato l’obiettivo di cambiare per queste via le leggi sul lavoro e sulla cittadinanza. Né vale la pena insistere troppo sulla complessità dei quesiti e su altri aspetti, come la campagna ostruzionista del governo e il silenzio sostanziale dei media.
Prima di ogni altra cosa, una riflessione rigorosa concerne l’uso dello strumento. Essendo l’unico strumento agibile di democrazia diretta non può essere usato e interpretato come misurazione del consenso né da parte del governo né dall’opposizione.
Si, neanche il Governo può considerarlo come una sua vittoria e come indice dell’assenza di un campo alternativo. Se la Premier e la seconda carica dello Stato ragionano così è perché, preso atto del livello enorme della astensione alle elezioni politiche, il Governo nazionale è Governo di minoranza, con un vulnus di legittimazione, come per molti presidenti e sindaci eletti con la espressione attiva di una minoranza del corpo elettorale.
Ragionando così si rischia di svilire uno strumento che la classe dirigente nel suo insieme deve riqualificare nel quadro di un più corretto orientamento costituzionale. E che appunto obbliga a centrare il tema: la conferma che viviamo una crisi della democrazia. Della fiducia dei cittadini di poter influire sulle grandi scelte che li riguardano. E se la destra può non preoccuparsene, non è così per il «fronte repubblicano» che si oppone alla torsione autoritaria delle nuove destre.
È su questo punto che c’è materia viva e utile per discutere del referendum di giugno.
Cosa esprimono i quindici milioni di persone che si sono recate alle urne e il voto massiccio a favore dei diritti del lavoro? E, anche se in misura inferiore, per i nuovi italiani?
Suppongo, una soggettività che la riorganizzazione delle forze progressiste sono chiamate a raccogliere dentro la dinamica società/istituzioni rappresentative. E che la forza principale di questo campo, il partito democratico, ha scelto di archiviare la postura neo liberale «che il mercato risolve tutto». Con la libertà del mercato, con la flessibilità dell’uso e getta della forza lavoro (jobs act), con la maschera del lavoro autonomo dietro la quale nasconde la precarietà e lo sfruttamento dei riders. Questo obbiettivo di civiltà non può essere solo a carico del sindacato. Su questo punto si può sviluppare la costruzione di una convergenza più ampia con altri soggetti. A cominciare dal Movimento 5 Stelle.
I quindici milioni di cittadini andati al seggio per i cinque referendum sono una riserva di energie politiche e civili, una leva «che può sollevare il mondo» della sinistra. Può voler dire una svolta neokeynesiama in campo economico sociale; la connessione con le piazze della pace contro il genocidio dei palestinesi fa parte del governo israeliana e contro l’economia di guerra del Re-Arm Ue. Strategie disastrose e fallaci che portano fuori campo rispetto alla competizione globale che, come dice Lucio Caracciolo, si gioca nel cosmo fra Cina e USA.