Aver saputo trasformare una domanda in un ordito sul quale costruire l’intera narrazione, potrebbe iniziare e finire qui la recensione all’ultimo libro di Javier Cercas. Ma non finirà qui perché questo libro è un giacimento di pensieri ricchi di senso e di parole necessarie che meritano di essere raccontate.
«La letteratura è uno strumento di conoscenza: serve a comprendere. “Comprendere tutto significa perdonare tutto” recita un detto francese. Falso. Comprendere non significa giustificare: significa darsi gli strumenti per non commettere di nuovo gli stessi errori. È questo che facciamo noi romanzieri; perciò, a dispetto di quanto predica la superstizione letteraria più diffusa del nostro tempo, la letteratura è utile. A una condizione: che non si riproponga di esserlo…».
Il folle di Dio alla fine del mondo è il libro commissionato a Javier Cercas sul viaggio del papa in Mongolia, «un libro sul viaggio, sul papa, sulla Chiesa, sul Vaticano» e su quello che voleva, ha detto proprio così Lorenzo Fazzini, il responsabile della Libreria Editrice Vaticana, il 21 di maggio del 2023 al Salone Internazionale del Libro di Torino dopo che Cercas aveva appena finito di parlare della figura dell’intellettuale. Così è iniziato tutto.
Ma il libro non è solo questo, è molto di più. È diverse cose insieme. Dotta dissertazione filosofica sulla natura di Cristo e sulla religione, diario personale, reportage narrativo, romanzo, biografia e autobiografia. Ricco di suggestioni, prodigo di consigli di lettura e di approfondimenti tematici. Nel lungo e dotto preambolo prima della partenza per la Mongolia, si è come sopraffatti dalla quantità di informazioni ricevute e si apprende l’arte del fare domande. L’importanza di farsi e porre la domanda giusta.
In realtà le domande sulle quali costruisce l’intera narrazione sono due. La prima: chiedere a papa Francesco se sua madre vedrà suo marito, il papà di Javier, al di là della morte. Ovvero la ragion d’essere della religione cattolica, la resurrezione della carne e la vita eterna. La seconda: perché la dimensione religiosa di Francesco, che è un leader religioso, non appare quasi mai sui media e viene offuscata dalla dimensione politica?
Alla seconda risponderà in modo definitivo ed esauriente Loup Besmond de Senneville, inviato del quotidiano francese La Croix, poco prima dell’incontro del papa con la comunità cattolica della Mongolia nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Ulaanbaatar: «Francesco aveva un discorso religioso nuovo. L’enfasi della misericordia, l’interesse per i poveri e gli umiliati, il rifiuto della mondanità, l’idea di mettere Cristo al centro, l’arringa a favore delle periferie…Tutto questo quando è iniziato il suo papato, era nuovo, nessuno aveva mai sentito un papa parlare così, richiamava moltissimo l’attenzione, come il suo stile di vita, così austero, e il suo modo di essere e di comportarsi, così vicino, così diretto… Adesso invece, dopo dieci anni di papato, la gente già lo sa, non è più una novità, sembra perfino un po’ trito. Perciò interessa di più la politica».
Poi ce ne sono molte altre, la maggioranza delle quali riguardano la religione e la fede, appunto. E poi ci sono le risposte che Cercas cerca prima della partenza, in un lungo preambolo, potendo dialogare con persone che lavorano per il papa e con il papa, Lorenzo Fazzini, Paolo Ruffini, Andrea Tornielli. Padre Spadaro, il cardinal Tolentino, Salvatore Scolozzi, Matteo Bruni. Poi ci sono le risposte delle persone di cui si fida come Aldo Cazzullo o di quelle di cui ha imparato a fidarsi come Lucio Brunelli, di lui Lorenzo Fazzini dice: «Non so, io penso che, se qui a Roma il papa ha un amico personale, quello è Brunelli». Cazzullo e Brunelli sono due giornalisti.
Il lungo preambolo termina a pagina 197 allorquando l’aereo, che porterà il papa e tutto il suo seguito in Mongolia, decolla.
«Così, eccomi qua, ateo e anticlericale, laicista militante, razionalista ostinato ed empio rigoroso, in volo verso la Mongolia con l’anziano vicario di Cristo sulla terra, in attesa che finisca di salutare i vaticanisti e che venga il mio turno per interrogarlo sulla resurrezione della carne e la vita eterna, perché mi dica se mia madre rivedrà mio padre al di là della morte, per ascoltare la sua risposta e riportarla a mia madre. Ecco un folle senza Dio che insegue il folle Dio fino alla fine del mondo».
Ci si accorge ben presto che ciò che abbiamo letto per 197 pagine non è un preambolo, ma la struttura stessa del libro. Subito dopo essere atterrati in Mongolia, Cercas riprende gli incontri con persone che lavorano per il papa e con il papa e continua, in questo modo, a raccontare l’esperienza della chiesa cattolica non più solo a Roma, ma nel mondo.
Padre Ernesto, il cui nome prima di diventare prete è Ernesto Gerolamo Viscardi, è nato a Villa d’Almè in provincia di Bergamo e vive a Ulaanbaatar, da più di vent’anni, è la prima persona con la quale Cercas parla in Mongolia. Raccontando la sua storia, padre Ernesto racconta la storia dei missionari, l’essenza di essere un missionario, il perché si diventa missionari.
Leggendo questi dialoghi, quelli con padre Ernesto, l’abate Dambajav, Peter Sanjajav, il cardinal Marengo, Dagvadotj Ozdaya, Ganbaatar Sugarmaa e Battsengel Munkhabat, padre Giovanni, Loup Besmond de Senneville, padre Paul, suor Ana, suor Francesca, Antonio Pelayo, ci si rende conto che questi incontri, l’esito di questi incontri, più che essere uno storyboard diventino la narrazione grazie alla capacità fascinatoria e del saper raccontare di Javier Cercas e del suo traduttore italiano, lo scrittore Bruno Arpaia.
Domande per capire il mistero della fede, di chi dice di credere. Di chi crede o dice di credere nella vita eterna, uno dei misteri fondamentali della fede cristiana. Le risposte sono, nei momenti significativi del libro, accompagnate dalle affermazioni del papa in discorsi pubblici. Come una verifica continua e insieme un rimando: le une sorreggono le altre e viceversa.
Padre Ernesto è il Virgilio di Mongolia per Cercas ed è anche colui che più di tutti e di tutto avvicina Javier, l’uomo e non lo scrittore, all’idea di Dio.
Lo scrittore spagnolo continua a fare domande come se stesse scavando un pozzo per cercare acqua a cui abbeverarsi. Tanto va in profondità che si capisce che lo scopo non è più solo quello di scrivere un libro sul viaggio di papa Francesco in Mongolia, sulla Chiesa, sul Vaticano, ma quello di cercare, attraverso le testimonianze di fede, risposte. Di far dialogare, all’interno di sé stesso scrittore, ragione e fede. Cercare le ragioni fondative della storia culturale, filosofica e teologica dell’Occidente.
In questo senso, il racconto dei missionari è folgorante, quello delle missionarie contagiante. In questi racconti c’è la centralità del Vangelo, il mettere Cristo al centro di tutto proprio attraverso la forza tranquilla delle missionarie e dei missionari, «libri viventi».
Ed è proprio l’autore a ricordarlo a padre Ernesto, poco prima di accomiatarsi: «Il papa ha ragione: il cristiano che non è un missionario non è un cristiano. Quando tutti i cristiani saranno come voi saranno finiti i problemi della Chiesa». Padre Ernesto non è sorpreso dalle parole dello spagnolo e rivolgendosi a lui per l’ultima volta non dimentica il motivo per cui è missionario in quella terra lontana da tutto e da tutti, «E tu non dimenticarti di parlare bene della Mongolia», gli dice guardandolo fisso negli occhi con i suoi occhi azzurri.
Il ritorno, a Roma e quello successivo a Barcellona, e le pagine che lo raccontano sono un’attesa di quella che è la risposta che il papa ha dato alla domanda di Cercas sull’aereo che li portava in Mongolia: «Allora posso dire a mia madre che, quando morirà, rivedrà mio padre»?
Le ultime tredici pagine del libro sono struggenti e, oltre a svelare la risposta del papa, portano alla luce molto altro.
Se non avete mai letto Javier Cercas è arrivato il momento di farlo, non ve ne pentirete.
Lo scrittore di Ibahernando si è posto una domanda, due domande, tante domande, e ha cercato la risposta, le risposte, prim’ancora di parlare direttamente con il papa. Ha avuto un’idea di libro e su questa ha lavorato. Spiegandola, reiterandola. E nella reiterazione dell’idea e delle domande è racchiuso la magia di questa narrazione.
La letteratura come strumento di conoscenza ha scritto Cercas all’inizio di questo libro, la letteratura tanto cara a papa Francesco. Gli piacevano Jorge Luis Borges, Fëdor Dostoevskij, Robert Benson. Aveva un debole per i Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Su tutti, forse, Gilbert Keith Chesterton, scrittore e saggista inglese che molto si è interrogato sul rapporto tra ragione e fede e che in Ortodossia, un libro del 1908, scrive: «La ragione è di per sé una cosa limitata; è come una lama: può servire a tagliare e a separare, ma non a unire. È una qualità utile, ma un po’ pericolosa, come l’abilità di giocare con coltelli affilati. Il mistico accetta il sole come un fatto miracoloso. Il razionalista cerca di spiegare il sole, e finisce per non credere al sole».
Ragione e fede insieme e non separate, ma soprattutto una Chiesa missionaria, questo è il lascito più grande di Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».