Venerdì 11 luglio 2025, al Memoriale di Potočari, si stima fossero presenti centomila persone.
Centomila corpi e volti riuniti per commemorare il trentesimo anniversario del genocidio di Srebrenica. Sono partito da Sarajevo alle quattro del mattino per cercare parcheggio nei pressi del memoriale, ma anche così è stato difficile. Per arrivare a Srebrenica ci vogliono circa due ore e mezza.
Tra Sarajevo e la Republika Srpska c’è una continuità disarmante: già Sarajevo Est ne fa parte, e bastano tre chilometri dalla Baščaršija, il cuore ottomano della capitale, per imbattersi in monumenti che celebrano Ratko Mladić, il generale serbo-bosniaco responsabile dell’assedio di Sarajevo e del genocidio di Srebrenica. Oggi, moribondo, sta scontando l’ergastolo nel carcere di Scheveningen, vicino all’Aia.
La strada che porta a Srebrenica è insieme violenta e bellissima: i manifesti dedicati al leader negazionista Milorad Dodik compaiono qua e là tra fitte foreste di pini e faggi, vallate profonde e colline ricoperte da prati verde brillante. I campi coltivati, con le balle di fieno, le vacche e le pecore disposte come in un dipinto di Giovanni Fattori, si aprono all’improvviso tra i boschi come squarci di ordine in un paesaggio inquieto.
Il traffico nei pressi del memoriale è gestito dalla polizia della Republika Srpska, che con tono brusco intima alle auto, anche quelle dei familiari delle vittime, di muoversi, di non intralciare. Quella che mi si è presentata davanti, all’arrivo, era una folla immobile, quasi monocroma, silenziosa: un drappo umano che scendeva lungo le lapidi come un manto di lutto collettivo.
Di fronte al cimitero, inaugurato nel 2003 da Bill Clinton, sorge il Museo del Genocidio, che ha un ruolo politico cruciale. Qui, nel 1995, era stanziato il Dutchbat, il battaglione olandese incaricato di proteggere la zona protetta delle Nazioni Unite. L’ONU si era impegnata formalmente a difendere i civili ma quando, nel luglio 1995, le forze serbo-bosniache guidate da Mladić entrarono a Srebrenica, i seicento caschi blu, scarsamente armati e senza un chiaro mandato operativo, non impedirono il massacro.
I peacekeeper si trovavano proprio in quel blocco di cemento grigio che oggi ospita il museo, un tempo fabbrica di batterie. Sulle pareti restano i graffiti originali fatti dai soldati olandesti per passare il tempo, tra cui una frase atroce: «No teeth…? A mustache…? Smell like shit…? Bosnian Girl!» (Senza denti? Con i baffi? Puzza di merda? Una ragazza bosniaca!). Su questa offesa si fonda anche parte della memoria artistica. L’artista Šejla Kamerić ha sovrapposto il proprio volto allo sfondo di quel graffito nella sua opera Bosnian Girl (2003), trasformando la vergogna in denuncia visiva
Sempre qui, pochi giorni prima del massacro, Mladić incontrò il comandante olandese Thom Karremans. Le telecamere registrarono la scena: Mladić sorrideva, sicuro e dominante, mentre offriva grappa al comandante. Un brindisi divenuto simbolo di passività arrogante, di impotenza, e per molti, di complicità della comunità internazionale.
Lo scorso venerdì, tra quelle mura, si sono alternati capi di Stato, ambasciatori, funzionari e rappresentanti di istituzioni internazionali. Una sfilata monotona, fatta di discorsi simili tra loro, che non possono restituire gli oltre 8.000 uomini e ragazzi musulmani separati dalle famiglie e trucidati. I loro corpi furono gettati in fosse comuni, poi dissotterrati e dispersi per occultare le prove.
Dall’altra parte della strada, nel cimitero, centomila persone piangevano i loro cari. I giornalisti fotografavano le mamme piangere e gli attivisti che sventolavano le bandiere di Gaza.
Stranamente è invece passato inosservato un uomo che ha totalmente catturato la mia attenzione. Si muoveva spaesato, poggiato a un bastone su cui era fissata una bandiera canadese. L’ho seguito per diversi minuti, finché non ha raggiunto la sommità della collina, da cui si domina tutto il complesso: la musalla per la preghiera e i sette spiazzi a forma di petalo coperti da migliaia di lapidi bianche.
Si chiama Daniel Charnard, ha poco meno di sessant’anni e viene dal Québec. Nascosti dal berretto blu ha capelli bianchi corti e un orecchino a ciascun lobo. Mi ha raccontato di aver prestato servizio a Srebrenica come osservatore ONU tra il 1993 e il 1994, nell’ambito dell’operazione canadese Cavalier. Camminava nei boschi, tra le linee di contatto. «Eravamo troppo pochi, troppo giovani, con la pretesa di fermare decine di migliaia di uomini armati fino ai denti», mi ha detto. Nel 1994 arrivarono gli olandesi e lui fu assegnato altrove.
«Ero lì per vegliare», dice, «ma la veglia è stata impotente». Da allora non è più tornato. Fino a venerdì. Gli ho chiesto perché lo abbia fatto adesso. «Non ho una risposta precisa. Ma c’è un senso di colpa che non mi ha mai lasciato». Così ha deciso di partire, non prima di provare a coinvolgere, senza successo, altri veterani. Da Montreal ha preso un volo per Spalato per poi guidare per sette ore fino al memoriale solo per chiedere scusa alla gente di Srebrenica. Nello zaino portava alcune foto scattate nel 1994. Le ha lasciate a un oste del posto: spera che il museo possa mostrarle a chi, magari, riconoscerà un volto familiare. «Ora mi sento un po’ più in pace. Ma con l’amarezza che a Gaza sta succedendo la stessa cosa. Ad altri civili».
Ogni anno, durante la commemorazione, vengono sepolti i corpi delle vittime trovate nel corso dei precedenti 365 giorni. Quest’anno è toccato a sette persone: Senajid Avdić (1976), Hariz Mujić (1976), Fata Bektić (1928), Hasib Omerović (1961), Sejdalija Alić (1961), Rifet Gabeljić (1964), Amir Mujčić (1964). I loro resti sono stati recuperati da fosse comuni a Liplje, Baljkovica, Suljići e Kameničko Brdo. In molti casi, si tratta solo di frammenti ossei. Alcune famiglie hanno potuto seppellire appena una parte del corpo dei propri cari. Ad oggi, 6.765 vittime sono sepolte a Potočari. Altre 250 in cimiteri locali. Più di mille sono ancora disperse.
Per i tribunali internazionali e per quasi tutti gli studiosi fu genocidio. Per i negazionisti, e per Paesi come l’Ungheria, che il 23 maggio 2024 ha votato contro la risoluzione ONU che istituisce l’11 luglio come Giornata internazionale di commemorazione del genocidio, non lo è. La risoluzione è passata con 84 voti favorevoli, 19 contrari, 68 astenuti, e 22 assenti. Ironico che tra gli astenuti ci fosse l’Armenia e tra gli assenti Israele.
Venerdì c’erano due Srebrenica. Una era quella del cimitero: dei 7.000 camminatori della pace partiti da Nezuk, delle madri inginocchiate davanti alle lapidi, degli attivisti venuti da tutto il mondo. L’altra era quella del compound olandese, dove si susseguivano delegazioni e discorsi ufficiali. Ma basta aspettare che i dignitari se ne vadano, che le sirene si spengano, per ritrovare il reale.
Lo stesso reale che ogni 11 luglio torna a mostrarsi nel cuore della città. Venerdì sera, finita la cerimonia, davanti alla chiesa ortodossa, da un altoparlante risuonava una canzone: «Živeće ovaj narod i posle ustaša, jer i Bog je Srbin, nebesa su naša». (Questo popolo vivrà anche dopo gli ustascia, perché anche Dio è serbo, i cieli sono nostri).
È un brano di Baja Mali Knindža, icona del turbo-nazionalismo serbo. Diffuso ad alto volume proprio il giorno della commemorazione. Così i bosgnacchi di Srebrenica convivono anche con questo: con l’oltraggio, l’impunità, e il veleno che si insinua fin nel silenzio dei morti.
«Chi oggi mi fa la multa per un parcheggio in doppia fila, trent’anni fa partecipava al genocidio» mi ha detto un albergatore della zona.
Ma Srebrenica è anche altro. Fermarsi al dolore sarebbe un errore. È un luogo ferito, sì, ma anche un laboratorio fragile e vivo, dove alcuni cercano ogni giorno di ricostruire la convivenza.
Come Ado Hasanović, regista nato a Srebrenica, rifugiato durante la guerra, oggi voce importante del nuovo cinema bosniaco. Il suo film I diari di mio padre racconta la storia vera del padre, Bekir Hasanović, che nel 1993 scambia una moneta d’oro per una videocamera con cui documenterà la vita quotidiana fino alla tragedia. Ado riparte da quelle immagini, e dalle pagine del diario, per ricomporre il volto del padre, e con l’aiuto della madre Fatima, comprendere come abbia potuto sopravvivere alla Marcia della Morte. È un’opera toccante, che affronta traumi e paure, per ricucire i fili spezzati della memoria. Ado è anche l’ideatore del Silver Frame Festival, rassegna cinematografica internazionale che porta sogni e arte nel cuore ferito della Bosnia. Un festival dove non si parla di genocidio ma si guarda al resto del mondo (e si immaginano nuovi mondi) come si può fare solo davanti a un film,
Srebrenica è anche la School of Good Tones, scuola di musica gratuita per bambini di ogni provenienza, figli di vittime e carnefici, che imparano insieme a suonare, viaggiare, ascoltarsi. Uno degli esperimenti pedagogici più coraggiosi dell’area post-bellica.
Come anche la cooperativa agricola Insieme, nata a Bratunac nel 2003, promossa tra gli altri dal fotografo Mario Boccia: oggi realtà produttiva nel settore dei frutti di bosco biologici, che riunisce donne serbe e musulmane. Dove un tempo c’erano paura e diffidenza, oggi si raccolgono lamponi, si lavora fianco a fianco.
A Srebrenica la memoria non è solo fatto storico. È frontiera viva. E ogni 11 luglio è una tregua, non una fine. Eppure, nonostante tutto, c’è chi continua a piantare alberi, a scrivere film, a suonare strumenti. A disegnare un futuro dove il presente è ancora macerie e odio.
