Talk o non Talk, questo è il dilemma

Giorgio Simonelli

«Di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno» dice un proverbio che, per la verità, non sentivo dai tempi della mia infanzia ma che mi è ritornato prepotentemente alla memoria, quando ho letto le dichiarazioni di Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai, a proposito del talk show. Avendo dedicato attenzione e qualche studio al genere, fin dalla sua nascita in Italia alla metà degli anni settanta, non posso che concordare pienamente con le premesse di Fuortes.

La prima: i talk non sono approfondimento. Di più. Per il modo in cui vengono allestiti da un giorno all’altro se non nella stessa giornata della messa in onda, per la dipendenza del dibattito dagli ospiti e dalla loro disponibilità, per i tempi ristretti che vengono concessi alle analisi, i talk sono quanto di più superficiale si possa immaginare.

L’approfondimento lo fanno le inchieste quando sono fatte bene e proprio in queste settimane basta guardare il programma di Domenico Iannacone per capire la differenza.

Il talk, e qui siamo al secondo motivo di consenso con le premesse di Fuortes, ha dato, il meglio di sé quando si è collocato sulla strada della leggerezza, quando ripropone la nobile, antica arte della conversazione, dell’incontro un po’ casuale tra persone diverse per appartenenza ed esperienze che si scambiano riflessioni e racconti sulle cose della vita. Era quello che accadeva nei primi programmi di Maurizio Costanzo in Rai. Quando invece il talk sceglie la strada della contrapposizione su un tema preciso, spesso delicato e complesso, non offre nulla di significativo sul piano informativo e si rifugia nella spettacolarità della rissa verbale.

Si fa riferimento nelle ultime stagioni all’assurdità di certi scontri sul tema della pandemia o dell’attuale guerra in Ucraina, ma non sono mancati pessimi esempi anche in passato. Ricordo con orrore le discussioni tanto accese quanto vuote tra ospiti di certi talk a proposito del delitto di Cogne o su un tema delicatissimo come la legge sulla fecondazione assistita.

Il problema non è affatto nuovo e concentralo su un programma particolare è un errore clamoroso. Se davvero la Rai vuole evitare il degrado del livello informativo prodotto dalla disinvoltura con cui i talk agiscono, deve avere il coraggio di elaborare un disegno molto ampio e profondo, uno di quello che per usare una celebre battuta ironica del generale De Gaulle si definiscono un vaste programme. Un piano che riguarda ovviamente tutti i talk cosiddetti politici, presenti sulle diverse reti dalla fascia mattutina fino alla seconda serata, dove da decenni è in onda un talk all’interno del quale si sono verificate molte situazioni discutibili e non certo esemplari di una corretta informazione.

Poi c’è un altro aspetto che va considerato se si vuole fare un lavoro serio. È quello della talkizzazione di molti programmi, dell’inserimento di forme di talk show all’interno dei contenitori cosiddetti popolari che organizzano dibattiti, discussioni accese, conflitti pretestuosi attorno a episodi di cronaca nera coinvolgendo esperti, testimoni, persone informate di fatti su cui sarebbe più prudente astenersi da ogni commento.

Ecco, se il programma della nuova dirigenza Rai è questo, così vasto e difficile ma meritorio, non c’è cha da congratularsi. Ma se invece tutto si concluderà con la semplice e semplicistica chiusura di uno dei talk finiti nell’occhio del ciclone per la presenza di qualche ospite non gradito, allora sarà una scelta molto grave. Perché i sospetti di una discriminazione politica diventeranno qualcosa più di semplici sospetti e le buone intenzioni espresse da Fuortes resteranno solo vaghe buone intenzioni, con quello che vi aggiunge il vecchio proverbio.

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