Nelle elezioni del 25 settembre poco più di 12 milioni di italiani hanno votato per la coalizione di destra e oltre 13 milioni e mezzo di italiani hanno votato per i tre partiti, divisi, del centro-sinistra (PD, Movimento 5 Stelle e Azione).
C’è una piccola discrepanza tra i dati della Camera e quelli del Senato, ma la sostanza non cambia: una differenza di oltre un milione e mezzo di voti a favore dei partiti di centro-sinistra. In termini percentuali si tratta di una differenza di oltre cinque punti (44% circa per la destra e 49% circa per i partiti di opposizione). Per effetto della legge elettorale vigente, la coalizione di destra ha ottenuto il 60% dei voti al Senato e alla Camera, i tre partiti del centro sinistra hanno ottenuto il 33% dei seggi alla camera e il 40% al Senato. Credo siano questi i dati da cui partire per una riflessione sul presente e sul futuro della politica italiana.
Per cominciare, ci si può interrogare sulla qualità e la valenza democratica di una legge elettorale che dà luogo a simili risultati. Interrogativi del tutto legittimi. E tuttavia in un Paese caratterizzato da un’instabilità politica quasi endemica, da un grado elevato di litigiosità tra partiti e da leadership di partito spesso personaliste, non è né troppo sorprendente né troppo scandaloso che sia prevalsa una legge elettorale che privilegia fortemente la capacità dei partiti di allearsi e di offrire prospettive di governi stabili, anche se a scapito della rappresentatività e dell’effettiva volontà della maggioranza dei cittadini. È invece sconcertante che la consapevolezza del modus operandi della legge elettorale e la totale prevedibilità dei risultati a cui si sarebbe giunti in assenza di alleanze non siano state un collante sufficiente.
Ed è tanto più sconcertante se si considerano le implicazioni della sconfitta a cui in tal modo ci si condannava, compreso il fatto di consegnare il Paese a una destra con al suo interno tratti e presenze inquietanti, che inevitabilmente rende l’Italia più fragile e più debole nel quadro europeo, e che a sua volta indebolisce il quadro europeo. Qualunque cosa si pensi di questa destra, e della credibilità della svolta moderata ed europea di Giorgia Meloni, la sua collocazione nello spettro politico europeo è tale da rendere inevitabili frizioni e contrasti, anche se al momento non è facile prevederne l’oggetto o la portata. La recente crisi diplomatica con la Francia sulla migrazione ne è una prima prova eloquente. I governi europei di centro e di sinistra, che sono ancora in maggioranza, non hanno alcun interesse ad agevolare e legittimare un governo in larga misura espressione di una destra populista e sovranista, perché significherebbe legittimare e rafforzare le proprie opposizioni di matrice analoga. È una dinamica che rischia di creare forti ostacoli al cammino d’integrazione.
Perché tutto questo non è bastato a far emergere come priorità assoluta un progetto di alleanza delle forze di centro-sinistra?
Per molti la risposta attiene alla distanza che separa le principali forze di opposizione, portatrici di contenuti e di istanze troppo diverse per poter confluire in alleanze anche solo elettorali. Queste differenze indubbiamente ci sono, ma non sembra siano più pronunciate o insuperabili di quelle che pure sono presenti nella coalizione di centro-destra. Da una parte e dall’altra ci sono diversità sostanziali in termini di bacini elettorali (anche con forti differenze geografiche), di priorità politico-sociali e di visione geo-politica. Più che le differenze di contenuti e di visione, quello che ha impedito l’emergere di una coalizione di centro-sinistra sono stati i veti pregiudiziali, le diffidenze, i personalismi, gli irrigidimenti e le ingenuità tattiche. Tutte circostanze che denotano una debolezza di leadership e di visione strategica.
I grandi leader politici hanno la capacità di coniugare la più grande coerenza strategica con la più grande flessibilità tattica e negoziale. È stato così per i capi politici che nel dopoguerra hanno tenuto a battesimo la Costituzione, è stato così nei momenti più solenni della nostra storia contemporanea. Basti pensare ad Aldo Moro. I leader dei partiti di centro-sinistra prima delle elezioni, e visibilmente anche in questa fase, sembrano invece combinare il massimo dell’opacità strategica al massimo della rigidità tattica.
Quali sono le probabilità che questo possa cambiare in futuro?
Difficile a dirsi, anche perché l’unico cambiamento in vista è quello del leader del Partito Democratico, un cambiamento che non potrà servire ad abbattere il muro invalicabile eretto tra Azione e Movimento 5 Stelle.
È possibile che la realtà imponga con forza l’esigenza di uscire dall’opacità strategica e abbracciare una visione forte e lungimirante. Una visione che dia centralità alla transizione climatica e digitale, agli investimenti in ricerca, al futuro dei giovani e delle donne, alla lotta alla povertà e alle diseguaglianze, alla difesa della salute, alla promozione dei diritti, e a tutti quei temi sui quali l’Italia è rimasta indietro rispetto ai partner europei più avanzati.
In altre parole, una visione saldamente ancorata ai valori e agli obiettivi europei e pienamente consapevole che l’impegno in Europa e con l’Europa è l’unico antidoto al declino. Ed è possibile che una maggiore chiarezza e lungimiranza strategica apra le porte a un confronto politico meno segnato da miopie e personalismi.
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