Afghanistan, tutti a casa…

Piero Ignazi

La fine della presenza occidentale in Afghanistan avrebbe dovuto concludersi tranquillamente con qualche cerimonia ufficiale di saluto e niente più. Gli accordi siglati nel febbraio del 2020, a Doha, tra americani e talebani – senza rappresentanti né del governo afghano né degli altri partner della coalizione – nella sostanza legittimava i nemici e consentiva loro di tornare in scena.

Si prevedeva quindi un passaggio di consegne soft secondo quanto già stabilito questa primavera (meglio: imposto dagli americani nonostante le resistenze degli alleati). Date queste premesse nessuno aveva previsto una accelerazione così forte del collasso degli apparati militari e civili dello stato afghano. Indubbiamente i servizi di informazione della coalizione occidentale, e in primis quelli americani, i più numerosi sul terreno, così come quelli britannici, i più radicati e pervasivi, non sono stati in grado di controllare l’evolvere della situazione.

La débâcle maggiore va proprio addebitata all’intelligence. Senza informazioni attendibili sul terreno anche la potenza più agguerrita rimane cieca e impotente. Evidentemente la fiducia riposta nel presidente Asharafat Ghani, un accademico che aveva passato più tempo negli Usa che nel suo paese di origine, e nell’addestramento dell’esercito afgano era del tutto sbagliata. Quest’ultimo aspetto, relativo al training delle forze armate, riguarda in particolare l’Italia in quanto avevamo avuto noi il compito di curare la loro formazione, data la nostra competenza in merito, universalmente riconosciuta.

Ma un esercito combatte per uno scopo e sotto una guida. Quando la guida non è considerata affidabile o legittima allora si lasciano cadere le armi. Il governo era il governo degli americani non degli afghani. Rimaneva in piedi grazie a loro. Senza di loro sarebbe crollato.

In un paese di quasi 40 milioni di abitanti, non si possono confondere le élite cittadine, quel microcosmo di proto-borghesia che stava nascendo – e su cui tanto oggi si insiste con i drammatici casi di chi vuole scappare – con la vastità del paese e le sue masse contadine che seguono ancora codici di fedeltà tradizionali, rivolti alle loro etnie e ai loro clan, non certo ad uno stato o ad un governo incomprensibili.  Tra l’altro, che ci sia stato uno squagliamento delle forze armate afgane e una fuga dei responsabili politici non dovrebbe stupire un Paese come il nostro che ha vissuto sulla propria pelle l’8 settembre del 1943: autorità politiche che fuggono precipitosamente, alti comandi che non rispondono, militari lasciati allo sbando. Basta rivedere il mitico Tutti a casa di Luigi Comencini per rendersi conto della rapidità con cui si è sfaldata la struttura civile-militare in Afghanistan.

Il ritorno senza quasi colpo ferire dei talebani (e vedremo quanto resisterà il figlio del mitico comandante Massoud nella valle del Panshir) riporta in evidenza un tema di cui si è discusso molto agli inizi degli anni Duemila, soprattutto dopo l’invasione della coalizione dei volenterosi in Iraq: l’esportazione della democrazia.

La questione era stata impostate dagli ideologi neo-conservatori ispiratori della presidenza Bush jr. che avevano promosso la lotta contro l’asse del male rinverdendo i loro ardori giovanili trotzkisti: semplicemente, avevano sostituito la diffusione globale della rivoluzione proletaria con quella della democrazia. Ovviamente diffondere e impiantare regimi liberali, tolleranti, pluralisti, aperti, democratici, è quanto di meglio ci si possa augurare. Ma le utopie andrebbero lasciate ai Tommaso Moro e ai tanti cha hanno sognato un mondo ideale, armonioso e senza conflitti (anzi: senza il male); la realtà delle istituzioni politiche è tutt’altra: esse hanno bisogno di gambe su cui appoggiarsi.

Queste, come la scienza politica ha dimostrato, necessitano di alcune condizioni: una società civile con un buon tasso di istruzione, una tradizione di condivisione più che di fazione, l’assenza, o il superamento, di divisioni profonde di tipo etnico-religioso, una classe media almeno in formazione.

Tutti elementi che mancavano clamorosamente in Afghanistan, e che solo una cecità ideologica poteva pensare di instaurare dall’oggi al domani. Forse con decenni di accompagnamento lento e inclusivo (e con il minimo sfoggio di armi), senza pretendere di importare e imporre la nostra visione, avremmo potuto aiutare gli afghani a prendere in mano il loro destino e andare verso istituzioni che garantissero i diritti universali.

Ma sarebbe stato necessario bombardare il paese di libri, quaderni e penne – e poi di computer – ,  non di strumenti di morte che tante vittime hanno fatto tra i civili (un aspetto che pochi ricordano….)  Eppure, la catastrofe di Kabul non sembra insegnare nulla a noi occidentali. Molti continuano a pensare che l’obiettivo fosse giusto. Che era doveroso piegare la resistenza interna ai nostri valori.

No. Avevano ragione quelli che mettevano in guardia da indebiti ottimismi perché la libertà può nascere dalle punte delle baionette solo se c’è una società pronta a farla sua. Altrimenti si finisce per essere stranieri invasori. E come tali rigettati oltre confine.

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