Come cambia la geografia al tempo della pandemia

Franco Farinelli

Il Covid è l’agente della finale distruzione del modello spaziale del funzionamento del mondo. La vittima del Covid, aldilà degli esseri umani, è il grande modello moderno dello spazio, invisibile come il Covid stesso: la pellicola astratta con la quale la modernità ha rivestito la faccia della Terra, o meglio la superficie del globo, e la cui funzione è stata ed ancora è quella di ridurre la faccia della Terra a velocità, cioè a tempo di percorrenza.

Spazio deriva dall’antico greco στάδιον, stadio, quello dove oggi si giocano le partite di calcio, adesso non a caso senza spettatori. Ma prima ancora lo stadio era per gli antichi greci la misura metrica lineare standard. Lo spazio implica perciò un concetto formidabile a cui noi da moderni siamo tanto assuefatti da non farci più caso: l’idea (che poi diventa pratica coercitiva) che l’intera faccia della Terra sia riducibile ad un ambito continuo, omogeneo e isotropico. Non è così banale come sembra.

La continuità, l’omogeneità e l’isotropismo, cioè le tre proprietà della distesa spaziale, della faccia della Terra ridotta a distesa unica, sono esattamente quelle che nella geometria classica definiscono la natura geometrica di un’estensione. Per Euclide un’estensione si dice geometrica appunto quando essa è continua, omogenea e isotropica. Cioè quando è tutta un pezzo, quando è fatta tutta della stessa sostanza, e quando tutte le parti sono funzionalmente voltate in una stessa direzione.

Lo Stato moderno è la copia di questo modello, vale a dire che esso è la copia di una mappa, il dispositivo che trasmette al territorio la sua struttura geometrica. In altri termini bisogna rovesciare quello che fin da piccoli ci hanno insegnato, o meglio implicitamente lasciato credere: prima viene la mappa, la determinazione della qualità, delle proprietà spaziali dell’oggetto Stato che deve uniformarsi, adeguarsi ad esse, e poi lo Stato stesso. Se non si comprende questo non si comprende nulla di ciò che sta accadendo oggi.

E infatti: qual è la parola d’ordine che in Italia, ma non soltanto in Italia, da un anno viene enunciata come unica, possibile, strategia di lotta alla pandemia, al Covid? Il distanziamento sociale, che è esattamente il rovescio dello spazio, il suo annullamento. Tutta la modernità ha costruito una società fondata sulla prossimità, cioè sulla progressiva eliminazione della distanza tra gli esseri umani. Non che il concetto di prossimità sia moderno, naturalmente: «ama il prossimo tuo come te stesso» si legge nelle sacre scritture, e il prossimo tuo è, esattamente, chi ti sta vicino. Ma la modernità ha fatto della produzione delle condizioni funzionali della progressiva vicinanza in termini materiali tra un essere e l’altro l’imperativo centrale della propria costruzione del mondo, attraverso l’invenzione della velocità, cioè di un sistema sempre più efficace e veloce di produzione di prossimità rispetto a ciò che è diverso e sta lontano.

Il grande programma della modernità è stato questo, ed è stato vincente. Basta leggere il testo fondamentale che autorizza il programma e che lo fonda politicamente, filosoficamente e praticamente: il Leviatano di Thomas Hobbes, 1651. Che appare proprio nello stesso tempo in cui un signore chiamato Cartesio riduce programmaticamente a cartografia la faccia della Terra. «Nomen omen» dicevano gli antichi, nel nome vi è già un destino. E che chi riduce ad una mappa il nostro pianeta si chiami monsieur Des Cartes, «il signore delle Carte» mi pare la più folgorante astuzia (o ironia?) della storia della filosofia occidentale.

Distinguendo il soggetto dall’oggetto, separando la res extensa, la materia, l’oggetto, dalla res cogitans, il soggetto, la mente.

Si guardi una qualsiasi immagine di città precedente la fine del Seicento. Mi viene in mente, come esempio straordinario, la Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano, il grande corridoio in cui a partire dalla fine del Cinquecento il Papa si aggirava e decideva delle sorti dell’Italia, tutta rappresentata su quelle pareti. Sul soffitto del corridoio, che assume la forma stessa della penisola italiana, esiste ed è ancora oggi possibile ammirare una delle prime rappresentazioni che noi abbiamo dell’Appennino. Sui lati invece si dispongono le pitture, di mano olandese su disegni del cartografo Egnazio Danti, che raffigurano le singole regioni e i centri più importanti del nostro Paese.

Basta guardarle con un minimo di attenzione per scorgere una cosa formidabile: tutti gli edifici di cui le città si compongono hanno un’espressione umana. Ammiccano in qualche maniera, sorridono o sono tristi. Perché è così? Fino alla metà del Seicento, cioè appunto fino a Cartesio, non esisteva la separazione, per noi abituale, tra ciò che è animato e quel che invece è inanimato, tra mente e materia, tra res cogitans e res extensa come le chiama il signore delle Carte, che per primo le separa con nettezza l’una dall’altra. E le separa perché altrimenti lo spazio moderno non sarebbe potuto nascere, perché è proprio lo spazio che, interponendosi tra i due termini, consente la loro distinzione monopolizzando le possibilità della loro relazione.

In altre parole: il dominio moderno della funzione spaziale si fonda sull’opposizione ontologica, in precedenza inesistente, tra soggetto e oggetto. Operazione decisiva che implica una serie di condizioni al contorno, di modellizzazioni strettamente connesse al «parto» (per citare Bacone) spaziale. Si prenda ad esempio il rapporto tra causa ed effetto così come oggi lo intendiamo.

All’inizio del Seicento un signore dalmata, De Fabritiis (il cui testo è ancora all’indice), aveva proposto una spiegazione del moto delle maree che per noi ancora adesso vale. Sosteneva il De Fabritiis che la spiegazione era alquanto semplice: il pelo dell’acqua marina si sollevava perché attratto dalla luna quando essa si avvicinava alla Terra e al contrario si rilasciava quando la luna si allontanava. Ma Galileo Galilei montò su tutte le furie e scrisse una barocchissima teoria per contrastare quella del De Fabritiis, sostenendo che le maree erano effetto soltanto di moti interni al mare.

Nella teoria del De Fabritiis Galileo aveva colto una tragica possibilità per la sua messa a punto del sistema generale della fisica moderna che allora iniziava a costituirsi a partire dal modello della spiegazione causale. Pensava Galileo: se l’effetto coincide temporalmente con la causa, se il pelo dell’acqua marina si alza contemporaneamente all’avvicinarsi del corpo lunare, come sarà più possibile distinguere la causa dall’effetto? Tale distinzione implica per Galileo un intervallo che si possa misurare (altrimenti detto: appunto uno spazio) perché in caso contrario causa ed effetto non sarebbero più distinguibili l’una dall’altro, e ogni possibilità di spiegazione scientifica verrebbe a cadere. Come dire che i modelli di spazio e di spiegazione causale sono strettamente connessi l’uno all’altro, sono anzi due aspetti della stessa mossa, della mossa decisiva per la costituzione della modernità, dunque delle categorie di cui ci ancora ci serviamo per spiegare il mondo.

Causa, effetto, soggetto, oggetto. È questo universo di natura spaziale che il Covid-19, la pandemia, mette oggi in crisi. La pandemia esiste perché esiste la smart city, entrambe fondate esattamente sulla crisi del concetto spaziale. Nella fisica quantistica soggetto e oggetto, causa ed effetto sono categorie da tempo ballerine. Danzano e sono inservibili così come noi le conosciamo. Ma la pandemia e la smart city non riguardano uno specifico campo delle discipline scientifiche, ma coinvolgono direttamente la nostra vita quotidiana. Diceva Kant, che era un geografo anche se ci hanno detto che era un filosofo, che la geografia non è una scienza ma è quel sapere che serve a leggere i giornali. E proprio oggi, esemplarmente, sulla stampa quotidiana ci sono due articoli illuminati in questo senso.

Il primo è un’intervista a un grandissimo stilista italiano, il più celebre degli stilisti italiani nel mondo, che dice di stare finanziando la costruzione di giardini e la piantumazione di molti alberi.

Su un altro quotidiano si legge un articolo a doppia firma della sindaca di Stoccolma e di un ingegnere che insegna a Stanford, sulla smart city. Sostengono che il problema della smart city (smart non significa intelligente, dovremmo tradurlo in italiano con una parola romanesca: para…) consista nel comportamento delle persone che non si adeguano al funzionamento della città: sarebbero gli umani a dover modificare le proprie abitudini rispetto all’accrocchio di sensori, nei confronti cioè di quella che i francesi chiamano l’informatizzazione dello spazio, un modo elegante per dire rispetto la morte dello spazio moderno. Noi viviamo esattamente in questa polarizzazione del discorso che riflette il passaggio, non indolore, dall’era della riduzione della Terra ad una mappa a quella del riconoscimento della Terra come sempre abbiamo saputo che fosse ma mai abbiamo avuto il coraggio di praticare: un globo, una sfera. Un passaggio che dipende dall’avvento, dopo secoli d’incremento delle connessioni spaziali (strade sempre più diritte e veloci, ferrovie, autostrade) di un agente tecnologico che di spaziale non ha quasi più nulla: la Rete, tanto imprevista che ci volle del bello e del buono perché ci si accorgesse della sua esistenza.

La Rete nasce nell’estate del 1969, l’estate nella quale eravamo tutti con il naso all’insù per guardare l’uomo che sbarcava sulla Luna, e a tutti sembrava l’inizio di una nuova epoca. Ma mentre tutti quanti noi eravamo ancora nel vecchio mondo, proprio quell’estate, tra Washington e Los Angeles quattro computer iniziavano a dialogare fra di loro, mutando atomi in bit. Iniziava la smaterializzazione del funzionamento del mondo tanto da far sembrare poca cosa quella avviata nell’Ottocento con il telegrafo. E la modernità entrava in crisi, perché entrava in crisi lo spazio e la sua concreta copia, lo Stato. Senza il quale (si pensi alla Guerra dei Trent’anni nella prima metà del Seicento) la storia dell’Europa e del mondo intero, non lo si dimentichi, sarebbe stata molto più sanguinosa. E alla crisi dello stato, dello spazio, corrisponde l’avvento della globalizzazione.

La globalizzazione significa che il modello del mondo non è più riassumibile nello schema centro periferia. Questo è vero per la mappa, all’interno dello Stato, o anche nei rapporti interstatali. Se il mondo non è più una tavola, una mappa, uno Stato, geometricamente definito e organizzato, ma diventa funzionalmente ciò che si è sempre saputo che fosse ma che non si è mai avuto il coraggio di affrontare, una sfera, noi non abbiamo più un centro e una periferia. Ovvero ci sono, ma non significano più niente. Abbiamo due poli.

Da un punto di vista topologico, cioè matematico, la tavola (la mappa) e la sfera (il globo) sono irriducibili l’uno all’altro. Irriducibili significa proprio in senso tecnico che per quanti sforzi si facciano non si possono far coincidere mai esattamente l’uno con l’altro, perché funzionano sulla base di logiche completamente diverse. La logica della mappa, della tavola, dello Stato è la logica centro periferia, ovvero della distanza metrica. La logica della globalizzazione è all’opposto la polarizzazione, al cui interno lo schema centro-periferia gioca al massimo un ruolo secondario se non residuale. Ci sono due poli che si oppongono senza nessuna mediazione, senza nessun vettore o veicolo metrico che possa farli entrare in una relazione produttiva. Noi siamo oggi esattamente in questo traumatico passaggio, che interpella in maniera immediata il sapere geografico, agente della riduzione della sfera terrestre ad una tavola, ad una mappa.

Geografia significa riduzione della sfera terreste ad una superficie e oggi la geografia è riportata alle sue origini. E le origini della geografia sono le origini della cultura occidentale.

La filosofia nasce con Platone ci veniva detto, ma non è che prima di Platone non si pensasse, c’erano dei signori, i presocratici, prima di Platone. I modelli che abbiamo in testa vengono tutti da questi straordinari signori con nomi anch’essi straordinari, Anassimandro, Anassimene, Anassagora.

La filosofia non esiste perché Platone non era vissuto almeno nella incarnazione che noi conosciamo. Platone sosteneva di essere l’ottava incarnazione di un soggetto e che ricordava tutte e sette le sue prime vite. Noi li chiamiamo presocratici, essendo Socrate un’invenzione letteraria di Platone, per non dire che il pensiero occidentale non nasce con la filosofia, ma nasce con una altro sapere.

Strabone lo dice con estrema chiarezza: prima dei filosofi c’erano i geografi. I filosofi arrivano a cose fatte. Il mondo è già stato ridotto a superficie, la sfera è già stata ridotta ad una serie di mappe. Sarà poi Tolomeo, nella secondo secolo dopo Cristo a spiegare in maniera scientifica il procedimento che già esisteva.

La Rete oggi mette in discussione tutto questo e ci costringe a tornare alla sfera terrestre.

Come ci ha spiegato, vent’anni fa al volgere del millennio, Manuel Castells, l’economia del mondo è soltanto una e funziona all’unisono senza nessun tipo di intervallo, né temporale né spaziale. Questa è l’economia globale al cui interno non vi è quasi posto per lo spazio. Dico quasi, perché esistono dei fenomeni come per esempio la latenza della Rete, che sono di natura spaziale. Una funzione comunque residuale.

Torniamo al Covid e alla geografia.

Costretti dal funzionamento dell’economia e del mondo a guardare la sfera terrestre per la prima volta, noi abbiamo una sola possibilità che passa attraverso al ricostruzione di come siamo arrivati ai nostri giorni.

Voglio continuare con quello che sto studiando in questo periodo.

Come possiamo capire perché tutto questo è avvenuto?

Voglio raccontarvi una storia che già conoscete, la celebre disputa del primato delle arti che investì tutta la seconda metà del Cinquecento e la prima parte del Seicento.

La domanda era molto semplice: chi è la regina delle arti, la pittura o la scultura?

Come sappiamo vinse a mani basse la pittura. Il grande difensore della scultura fu Benvenuto Cellini che racconta nelle sue memorie che per aver difeso la scultura era costretto ad andare in giro per Firenze con un pugnale in tasca.

Cosa sosteneva Cellini?

Un quadro è una rappresentazione della realtà fondata su un solo punto di vista. Per vedere un quadro si suppone che il soggetto stia fermo.

Quando noi guardiamo un quadro ci mettiamo di fronte a un quadro e possiamo farlo perché il quadro rappresenta un unico punto di vista (questa è la logica della formazione statale, il soggetto sta fermo e soltanto un punto di vista è possibile).

La scultura invece, sostiene Cellini, è molto superiore. Quando uno scultore realizza una scultura sa che deve produrre qualcosa al cui intorno girerà il soggetto che la guarda. Un soggetto mobile.

La bravura dello scultore consiste nel raccordare tutti i differenti punti di vista che il soggetto mobile che gira intorno all’opera d’arte si trova a scoprire nel suo circuito.

Trovo formidabile questa storia perché ci consegna la data, il luogo e le ragioni apparenti, che sono quelle di Firenze che si stava inventando la struttura dello Stato moderno fortunatamente esportate in tutto il mondo, che ci hanno condotto a questa situazione.

La nostra cultura non può far altro che tornare indietro e cercare di capire perché. Questa è l’unica maniera di parlare oggi, se ancora l’espressione ha senso, di Umanesimo. Perché gli umanisti sono gli uomini che hanno perfettamente capito quello che stava accadendo, e si sono affrettati a trasportare nel nuovo mondo che si stava organizzando, quello per cui il nuovo mondo diventava una mappa, e avevano capito la sua enorme capacità rivoluzionaria, e hanno cercato fino alla fine di controllarla.

Come?

Affrettandosi a traghettare nel nuovo mondo ciò che loro ritenevano fosse meritorio del vecchio mondo che forzatamente erano costretti ad abbandonare.

La geografia deve diventare geografia della sfera. Vasto programma, si sarebbe detto una volta, ma è l’unico plausibile e dunque dobbiamo pensare che sia possibile.


Ecco l’intervento di Franco Farinelli al sesto episodio di Lectorinfabula, 20 novembre 2020

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