Donald, scherzo della storia

Marco Panara

Donald Trump aveva vinto perdendo nel 2016. Il sistema elettorale americano aveva trasformato i suoi 62,8 milioni di voti nel 48,2 per cento dei grandi elettori e i 65,8 milioni di Hillary Clinton nel 42,1 per cento. Il 4 novembre prossimo sapremo se è stato un errore della storia.

Non è stato il primo a vincere perdendo, anche George W. Bush nel 2000 aveva vinto con 500 mila voti in meno di Al Gore, e la sua presidenza, durata otto anni, non fu memorabile. Quella di Trump lo è già al primo mandato e se fosse rieletto fra tre settimane lo sarebbe ancora di più, anche se per ragioni diverse.

Cominciamo dall’errore della storia. Nel 2016 Hillary Clinton aveva preso più o meno gli stessi voti che avevano riportato Barak Obama alla Casa Bianca nel 2012, ma nel 2012 il suo avversario Mitt Romney ne aveva presi 61 milioni e soprattutto, in quel sistema conta molto, era stata diversa la distribuzione dei voti tra i vari stati della federazione. Nonostante la contraddizione di assegnare in alcuni casi la vittoria a chi riceve meno voti, tuttavia quel sistema ha un senso, perché consente di dare voce a pezzi di America che non avrebbero una popolazione sufficiente per averla.

Quell’errore della storia, se tale è stato, ha segnalato il disagio profondo di gruppi sociali e aree geografiche che avevano pagato un prezzo molto alto alla globalizzazione non governata, alla finanziarizzazione dell’economia, al neoliberismo deregolatorio che ha dominato negli ultimi trent’anni. E che si è sentita lasciata indietro da una evoluzione dei diritti civili che è stata più veloce dell’evoluzione culturale di una parte significativa della popolazione.

Quel segnale è importante, è lo stesso che è venuto dalla Brexit e dalla crescita dei sovranismi europei. E la lezione è che i fenomeni vanno governati, che sia la globalizzazione o le migrazioni, l’aumento delle disuguaglianze, i processi di integrazione delle minoranze o la finanziarizzazione prima e la digitalizzazione adesso dell’economia. Ed è anche che il neoliberismo ha dei limiti macroscopici di sostenibilità sociale, economica ed ambientale, che la corsa alla riduzione delle tasse per i ricchi e per le imprese priva gli Stati dei mezzi necessari per attutire l’impatto di quei fenomeni.

Donald Trump ha colto elettoralmente quel segnale ma la sua interpretazione politica non è stata in linea con la lezione che ne veniva. Come molti populisti non ha voluto o saputo affrontare i problemi in maniera evolutiva ma ha coltivato l’incertezza e la paura che lo avevano portato alla presidenza, ha alimentato la nostalgia di un tempo in cui un operaio bianco non doveva temere per il suo posto di lavoro, le donne stavano fuori dai processi decisionali, gli omosessuali erano emarginati e i neri confinati nei piani bassi della scala sociale. Un tempo in cui le certezze economiche e lavorative non erano sfidate da globalizzazione, finanziarizzazione e digitalizzazione, e quelle identitarie dall’evoluzione dei diritti civili.

Trump non ha provato a risolvere i problemi che quel voto segnalava ma ne ha cavalcato gli aspetti psicologici ed emotivi. Non ha capito, non era nei suoi strumenti culturali di imprenditore spregiudicato, che era il momento di potenziare il welfare, di ridurre le disuguaglianze, di aiutare ad andare avanti chi era rimasto indietro rispetto all’evoluzione del mondo e della società. Lui ha preferito ricacciarli indietro, fomentando il loro rancore, rinchiudendoli in un immenso ghetto di coloro che restano fuori dalla storia e che il futuro lo subiranno senza parteciparvi.

Non ha capito, Trump, che molti dei problemi segnalati dalla sua elezione hanno una dimensione planetaria e che possono essere governati solo attraverso la condivisione e non con la chiusura o tirandosene fuori (come dall’accordo di Parigi sul clima). Che l’America può essere first solo se sta nel mondo, se non si isola e circonda di nemici, se è guida del multilateralismo e non paladina del protezionismo.

La sua elezione è un errore della storia non per quello che segnala ma per il modo in cui Trump ha risposto a quel segnale. Non sarebbe più un errore ma una drammatica svolta della storia se un secondo mandato consentisse a Trump di consolidare l’involuzione che ha fin qui determinato nel suo paese e nel mondo, spingendo l’Occidente e le democrazie liberali su un percorso inverso a quello sin qui faticosamente fatto, indietro nei diritti, nell’integrazione, nell’apertura al mondo, nel welfare. Se la risposta alle sfide del futuro fosse la caricatura di un impossibile ritorno al passato.

Questi quattro anni di Trump alla Casa Bianca hanno fatto della sua una presidenza già memorabile, nel senso che non la dimenticheremo. Per la sua istrionicità forse, per le scelte contraddittorie forse, per gli errori giganteschi, forse. Ma certamente per il paradosso di un presidente degli Stati Uniti anti-istituzionale, per il fatto che una grande democrazia liberale ha portato al posto supremo un suo antagonista naturale. Antagonista ancora più che per convinzione, la quale presupporrebbe la conoscenza critica dei valori e dei meccanismi di una democrazia liberale, per istinto, per natura, quasi primordiale.

Viene da chiedersi, ancora più se il prossimo 4 novembre dovesse consegnarcelo di nuovo presidente, se la democrazia liberale ha sufficienti anticorpi per reagire alle malattie degenerative che la minacciano. In questo senso la sua rielezione renderebbe la sua rielezione doppiamente memorabile, per la sua anti-istituzionalità e per qualcosa di più profondo. Perché queste elezioni ci diranno se abbiamo vissuto una lunga parentesi oppure se la capacità evolutiva delle democrazie liberali ha raggiunto il suo limite e comincia a tornare indietro. Ci diranno se l’Occidente democratico e liberale esisterà ancora oppure se l’Europa diventerà, suo malgrado, una fortezza assediata.

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