Il brevetto dei vaccini e la proprietà intellettuale

Mario Tiberi

Il tema è emerso inevitabilmente, quando tutte le comunità, nazionali, regionali, mondiali si sono trovate di fronte al problema, posto dalla pandemia del Covid-19, di creare una solida immunità a livello mondiale, ma dovendosi misurare con un insieme di vincoli operativi, tra i quali quello della proprietà dei brevetti, non certamente l’unico, è emerso in tutta evidenza.

Il dilemma efficace, per quanto schematico, è stato, dunque, quello ricorrente di valutare quanto mercato e quanto stato fossero necessari per avere una soluzione valida in termini di efficienza ed equità. È bene ricordare che il tema della proprietà intellettuale ha una portata generale; esso si pone, infatti, rispetto alle opere artistiche (libri, dischi, quadri, ecc.), per le quali il riconosciuto diritto d’autore (quasi) svanisce con le moderne tecnologie, oltre che per i meccanismi di mercato, che hanno reso ormai abituale la partecipazione degli autori alle spese di diffusione della propria opera.

Con evidenza, in qualche caso, il tema si pone per le innovazioni tecnico-scientifiche, specialmente quando esse possano avere una proiezione produttiva e commerciale particolarmente redditizia per le imprese che le utilizzano.

Per questa ragione le istituzioni politiche, nazionali ed internazionali hanno la necessità di regolare normativamente: il rapporto tra l’interesse individuale dell’autore-inventore di una novità; quello, altrettanto privato, delle imprese, impegnate nell’applicazione e/o diffusione di tale novità e l’interesse pubblico di consentire il più largamente possibile ai cittadini di usufruire, in qualche modo, della novità.

Il problema di drammatica acutezza si è presentato per la scarsità indiscutibile della quantità di vaccini disponibili rispetto al bisogno largamente riconosciuto che l’effettiva uscita da una pandemia di portata mondiale si possa ottenere soltanto quando gran parte degli abitanti del nostro pianeta avrà avuto accesso ad uno qualsiasi dei vaccini, convalidati dagli organismi previsti, nazionali e sovranazionali.

Esaminando da vicino il contesto in cui ci stiamo muovendo, abbiamo un numero di vaccini prodotti da imprese aventi la loro sede legale in pochi Paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina, Russia, India e Cuba), che sono stati sottoposti al vaglio dei vari organismi di controllo e che si stanno inoculando in giro per il mondo, con evidenti squilibri geografici. Accantoniamo però la dimensione geopolitica, sebbene sia rilevante, ma con l’ulteriore complicazione che, in qualche caso (Cina e Cuba, sicuramente) la brevettazione farmaceutica si svolge nella sfera pubblica; ci concentriamo, dunque, sulle questioni interessanti che si sono manifestate nel nostro Paese e offrono comunque lo spunto per riflessioni di carattere generale perché comuni, tra gli altri, ai Paesi dell’Unione europea (UE).

I vaccini sono stati ottenuti in tempi eccezionalmente rapidi, in questa area geografica, grazie alla cooperazione tra Stato e mercato che si è realizzata in particolare negli Stati Uniti e, in minor misura, in Gran Bretagna; in questi Paesi alcune imprese farmaceutiche hanno ottenuto cospicui finanziamenti pubblici dai loro governi, oltre che da quello tedesco, per sostenere gli oneri e i rischi della ricerca e della sperimentazione, che sono state, in qualche caso, portate avanti anche dall’attiva collaborazione tra ricercatori dipendenti da imprese private e quelli appartenenti a enti di ricerca pubblici. Questo sforzo ha creato disponibilità di vaccini in grandissima quantità, in linea con le valutazioni degli organismi preposti al compito di autorizzare la destinazione al pubblico, ottenuta, pur con qualche difformità tra un vaccino e l’altro.

Dal punto di vista economico, il mercato così importante che ne è risultato ha assunto: dal lato dell’offerta, la forma di oligopolio differenziato, cioè di poche grandi imprese capaci di produrre vaccini diversi; dal lato della domanda, la presenza dei vari Stati, come acquirenti di fatto delle dosi prodotte o producibili, ha dato luogo a quello che possiamo chiamare un monopsonio articolato. Nel complesso, dunque, un mercato che non trova legittimazione teorica né in termini di efficienza né in termini di equità, con prezzi diversi da vaccino a vaccino, che nascono dal confronto tra forti istituzioni private e pubbliche e quindi dalle loro rispettive capacità contrattuali, manifestate, in questo scenario da teoria dei giochi, con alleanze, bluff, minacce, incidenti e così via.

La legittimazione si è avuta di fatto, quindi, mediante l’esercizio di una valutazione discrezionale che può però anche essere operata distinguendo, sempre sulla base di un rispettabile pragmatismo, le esigenze contingenti da quelle collocabili nel prossimo futuro.

Tuttavia, è bene affermare, preliminarmente, che la proposta ha assunto la connotazione di una maggiore radicalità, cioè quella della sospensione dei brevetti, deve essere interpretata come una soluzione da adottare per arrivare all’obiettivo della vaccinazione di gran parte della popolazione mondiale tagliata fuori dal semplice operare dei meccanismi di mercato. Si tratta del resto di una circostanza prevista dall’accordo che regge l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), richiamata dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel corso del Global Health Summit svoltosi a maggio a Roma, sotto la Presidenza di turno italiana, quando ha proposto tale sospensione «in modo mirato, limitato nel tempo e che non metta a repentaglio l’incentivo ad innovare per le aziende farmaceutiche», in sintonia con affermazioni analoghe fatte dal Presidente Joe Biden; tutto ciò, avendo in mente l’obiettivo, come si può leggere nel documento finale del Summit, di una «vaccinazione su larga scala, globale, sostenibile, equa ed efficace». Lo stesso Parlamento europeo che, come sappiamo, non ha potere legislativo è arrivato ad approvare lo scorso 10 giugno, seppure con una maggioranza limitata, una mozione che chiedeva la revoca temporanea dei brevetti sui vaccini.

Del resto, non è affatto difficile rintracciare il solido retroterra culturale che può sostenere tali prese di posizione: lo si trova in ripetute affermazioni di Papa Francesco, invero anticipate anche in un passaggio della Populorum Progressio di Paolo VI, con la netta indicazione che, di fronte a beni come i vaccini, pubblici o comuni come li si voglia definire, la proprietà privata deve cedere il passo all’azione pubblica. Del resto, anche vari esponenti del pensiero laico, tra i quali mi limito a ricordare quello del liberale, ma non liberista, Benedetto Croce, hanno espresso un concetto simile. E poi come possiamo ignorare la nostra Costituzione, come purtroppo è spesso avvenuto, che all’articolo 42, fornisce il sostegno giuridico, oltre che etico, all’approvazione di leggi che prevedano l’espropriazione «per motivi di interesse generale», con la cautela del tutto accettabile di un indennizzo?

Prese di posizioni importanti che si spera siano in grado di condizionare positivamente il corso degli eventi. Come sappiamo, la proposta della deroga sui brevetti e la sospensione del diritto di proprietà intellettuale, avanzata da India e Sud Africa, non ha ottenuto l’approvazione nella sede istituzionale appropriata dell’OMC, il cui Trattato prevede la possibilità di tale sospensione; né è stato ottenuto il consenso all’applicazione più blanda di tale sospensione con la cosiddetta compulsory licensing. Tuttavia, la proposta ha acquisito il consenso per continuare il dibattito in sede OMC e ha creato un clima favorevole alle istituzioni pubbliche per attuare proposte ispirate dal cosiddetto pragmatismo politico, come ribadito congiuntamente dalla Direttrice Generale dell’OMC Ngozi Okonjo-Iweala e dallo stesso Mario Draghi il 21 maggio scorso a Roma, in occasione della riunione dei G20, svoltasi sotto la Presidenza di turno dell’Italia.

Il deciso dispiegamento della forza contrattuale di alcune istituzioni pubbliche sarebbe stato probabilmente in grado di ottenere dalle cosiddette Big Pharma l’accesso ai vaccini, facendo valere i congrui incentivi pubblici già riscossi. Ha inciso sulla mancata determinazione per arrivare alla sospensione dei brevetti, la consapevolezza di una notevole parte dell’opinione pubblica sensibile all’idea dell’intoccabilità della proprietà privata e, contestualmente, della difficoltà di realizzare un’idonea struttura produttiva capace di coprire tutte le fasi necessarie: dall’approvvigionamento delle materie prime, all’installazione delle attrezzature tecniche e alla organizzazione di un adeguato apparato amministrativo.

Guardando all’esempio dell’Unione Europea, si ha l’impressione che si sia fatta sentire la pressione dell’opinione pubblica espropriatrice; si può affermare che la contrattazione collettiva e non quella dei singoli Paesi, suggerita qua e là dai sovranisti, abbia consentito di ottenere condizioni contrattuali soddisfacenti. Così come è da considerare un buon risultato l’impiego manifestato da vari Governi, con l’adesione delle imprese, di provvedere alla somministrazione di quantità non irrisorie di vaccini destinati a Paesi economicamente e organizzativamente più deboli; è quanto ribadito anche in occasione della recente riunione dei G7 in Gran Bretagna.

Se ciò può essere considerata una soluzione soddisfacente nel breve periodo, è però necessario indicare proposte più incisive per il futuro.

Il rispetto della proprietà intellettuale non deve significare che essa possa essere protetta solo attraverso meccanismi di mercato che la affidi alla connessione tra impresa ed inventore. Perché, se è accettabile mantenere aree in cui la ricompensa per le invenzioni possa essere l’incentivo idoneo a stimolarne l’ottenimento, non va ignorata l’esistenza che la ricerca sopravvive in grande misura perché ci sono molte persone che esercitano la loro attività con grande generosità. Non si intende rendere coattivo il comportamento di chi, come Sabin, ha decisamente rifiutato di brevettare la sua scoperta del vaccino per la poliomelite, arrecando un beneficio impagabile all’umanità, ma di incoraggiare la ricerca pubblica con investimenti adeguati, oltre che con stipendi dignitosi per chi la svolge. Successivamente si possono perseguire accordi che, come avviene per il nostro Consiglio Nazionale delle Ricerche, prevedano una cointeressenza tra Ente e ricercatore per risultati che riscuotano l’interesse delle imprese private.

Se c’è un settore il cui campo di azione risponde all’interesse pubblico, questo è proprio il settore farmaceutico, soprattutto per la produzione di specifici farmaci. L’esperienza ci insegna che la disponibilità di una solida impresa pubblica nel campo dei vaccini sarebbe stato di grande giovamento per la lotta contro il Covid-19. Naturalmente senza trascurare l’ipotesi di collocare questo tipo di ricerca e di imprese nell’ambito dell’UE, attraverso opportuni accordi che coinvolgano le energie di più Paesi membri; del resto esistono già delle esperienze di attività industriali affidate alla cooperazione di imprese pubbliche europee.

Leggi anche