Il presidente e la poetessa. Una religione chiamata America

Sergio Baraldi

La convocazione di una nazione assente-presente. La rete di simboli e il rito per ricostruire il senso di eventi che hanno ferito la democrazia. La forza della politica simbolica per ricominciare da «giustizia e verità».

Quando il Presidente è salito sul palco per il discorso d’insediamento, gli americani erano assenti. Al loro posto l’enorme spianata di bandiere che sventolavano al vento. Per ragioni di sicurezza dopo l’assalto al Campidoglio, per il virus che non perdona, l’inaugurazione della presidenza per la prima volta nella storia avveniva di fronte una piazza vuota. Solo i parlamentari e pochi invitati. Così la presidenza di Joe Biden, sembrava destinata a diventare essa stessa un simbolo già al suo primo giorno: migliaia di bandiere a stelle e strisce che evocavano gli americani.

Il presidente aveva un compito gravoso: doveva convocare la nazione assente e tuttavia presente. Una nazione sgomenta per l’assalto armato al Congresso di pochi giorni prima, per il tentativo di Trump di sovvertire l’esito del voto democratico, per la lunga battaglia della campagna elettorale, per gli oltre 300 mila morti per il virus, per la crisi economica che colpisce imprese e lavoratori. Una nazione lacerata. Il Presidente doveva assumere su di sé il peso di questa storia dolente. E insieme radunare gli americani. «È il tuo momento» gli ha sussurrato Barack Obama. E Biden ha adempiuto alla missione. Per riuscirci ha puntato sulla forza della politica simbolica con i suoi segni e il rito della cerimonia d’insediamento.

La convocazione della politica simbolica
I simboli e il rito condividono il fatto di non appartenere solo a un dominio razionale (a causa del contenuto che veicolano) ma pure al dominio emotivo. I simboli condensano il significato e lo polarizzano, uniscono dimensione cognitiva e sensoriale. Direbbe il sociologo Pareto: rappresentazioni «non logiche» che si possono cogliere come credenze, pratiche sociali, sentimento. Gli individui si servono dei simboli per interpretare e conferire senso all’esperienza.

La convocazione però è un rischio per colui che la esercita: deve richiamare l’audience, suscitare l’ascolto, ha il potere di parola ma si espone alla possibilità della mancanza di risposta. Il Presidente, consigliato dalla moglie Jill, ha chiesto a tre donne di affiancarlo: loro sarebbero state le sacerdotesse del rito. La poetessa di 21 anni, nera, Amanda Gorman, la cantante Lady Gaga, la cantante latina Jennifer Lopez.

Loro hanno celebrato il rito della convocazione della nazione. Perché il Presidente, che aveva appena varato un governo con molte donne nei posti di comando, si è rivolto ancora una volta a loro? Forse perché nei momenti drammatici le donne sanno infondere coraggio. Non è il linguaggio materno che orienta e guida i bambini dalla nascita? Forse perché le donne sono corpo e simbolo della vita e della speranza, e i simboli sembrano sentirli e viverli intuitivamente.

Così Lady Gaga ha eseguito un inno nazionale essenziale ma vibrante. Jennifer Lopez mentre cantava in inglese ha infranto il protocollo per parlare in spagnolo come per chiamare sul palco la nuova America latina. Così Jennifer ha evocato un altro simbolo: l’integrazione di un Paese plurale.  Ma la protagonista è stata la poetessa Amanda Gorman: giovane, nera, con qualche difficoltà di pronuncia (la r e qualche consonante) proprio come Biden da bambino, figlia di una insegnante single, cresciuta in una casa modesta a Los Angeles con «poca televisione e molti libri».

Il Presidente e la poetessa. Così diversi, anche per generazione, eppure così consonanti. Sembra quasi che il Presidente abbia deciso di affidare alla poetessa il compito di dire il senso di quel giorno solenne. Lui dopo lo avrebbe fatto comprendere. Ma perché la poetessa? Forse perché arrivata sull’orlo della catastrofe, la nazione aveva bisogno di entrare in comunione con se stessa. E interrogarsi, capirsi. Spiega il sociologo Emile Durkheim, che ai primi del Novecento affrontò una riflessione sistematica sui simboli: non si può «comunicare tra gli uomini se non mediante simboli, segni comuni». Il linguaggio investe di significato le cose, le persone, gli eventi. In questo processo l’atto originario è dare un nome. A esso segue la classificazione. Da sempre è la poesia a nominare le cose. Occorre nominare prima che descrivere. È un fare con le parole, un mettersi in relazione. C’è un termine per questa connessione utilizzato prima da Malinowski nel 1923, poi ripreso e concettualizzato da Jakobson: «fatica» è una comunicazione in cui il linguaggio non è solo uno strumento per comunicare un pensiero, ma un modo di agire che ha lo scopo di stabilire un legame. È stabilire un contatto che avvicina l’altro.

Dopo la cantante Lady Gaga, che ha imposto il silenzio affinché si udisse la voce dell’anima americana, il suo inno, è toccato alla poetessa nominare le cose, in modo che i cittadini potessero entrare in relazione con il Presidente, che doveva dare forma al futuro. La politica simbolica, così, si è incaricata di condurre la successione a Trump, applicando ai drammatici problemi del presente simboli e miti molto diversi da quelli del populismo.

Nominare e domandare il senso degli eventi
Victor Turner in un libro, dedicato allo studio dei rituali nell’Africa centro-meridionale, ha scritto che il simbolo rimanda al «tracciare una pista» attraverso la foresta. Turner a sua volta ha rievocato il poeta Baudelaire che descrisse il mondo moderno come «una foresta di simboli» dove l’uomo può perdersi, ma pure ritrovare un percorso partendo da «sguardi familiari». Il nome definisce l’appartenenza e l’identità sociale e personale. Il nome partecipa ai sentimenti che ispira.

Pensare, del resto, è un’operazione in cui occorre classificare, ordinare, categorizzare il mondo. La giovane poetessa con il cappotto giallo sgargiante e il cerchietto rosso, di fronte alla piazza delle bandiere, il nome lo pronuncia subito: «La perdita che portiamo sulle spalle è un mare che dobbiamo guardare». E domanda: «Dove possiamo trovare una luce in quest’ombra senza fine?». Il nome è la democrazia in pericolo. Non solo in America, ovunque nel mondo. «In qualche modo abbiamo resistito e siamo stati testimoni di come questa nazione non sia infranta, ma, semplicemente, incompiuta».

Ecco il secondo nome: «unfinished». La democrazia non è mai compiuta, sempre è un pellegrinare, un combattere: «Alziamo il nostro sguardo non per cercare quel che ci divide, ma per catturare quel che abbiamo davanti». Poco dopo il Presidente spiega: «Abbiamo imparato ancora una volta che la democrazia è preziosa. La democrazia è fragile. E in questa ora, amici miei, la democrazia ha prevalso». La poetessa e il Presidente hanno allargato una rete di simboli con cui raccogliere il Paese.

Devono domandare il senso di eventi drammatici e devono ricostruirne il significato. Ha spiegato Durkheim: «Per esprimere noi stessi le nostre idee abbiamo bisogno di fissarle su cose materiali che le simboleggiano». I simboli consentono di conservare la società in quanto l’identità degli individui si collega all’identità collettiva, che viene espressa dai simboli: la bandiera, l’inno, la figura del Presidente. Le coscienze individuali sono di per sé chiuse le une alle altre, dice ancora Durkheim, chine nella loro vita quotidiana, ma possono comunicare per mezzo di «segni in cui si traducono i loro stati interni».

La nascita della società avviene all’interno di una interazione simbolica, ha confermato Mead. Osserva l’antropologo Geertz: «La distinzione tra il cerimoniale del potere e la sua sostanza diventa meno netta, persino meno reale: ciò che conta è il modo in cui vengono trasformati l’uno nell’altro». Dobbiamo utilizzare simboli per fare in modo che relazioni comunitarie prendano il posto di atteggiamenti intimistici. I simboli sono il medium che ci consente di trasformare sentimenti individuali in sentimenti comuni. Quando gli uomini trovano un’espressione comune, e si riconoscono in essa, allora gli individui sentono di vivere all’unisono. Avvertono di vivere un’unità morale che li lega.

Scrive ancora Durkheim: «Lanciando uno stesso grido, pronunciando una stessa parola, eseguendo uno stesso gesto concernente uno stesso oggetto, essi si mettono e si sentono d’accordo». Ecco l’inno, la canzone, soprattutto la poesia. Dopo gli anni in cui un Presidente, ora in esilio rancoroso, ha diviso il Paese dalla Casa Bianca, ha frammentato una società già divaricata e polarizzata, le tre donne sono chiamate a mettere in scena una «socializzazione simbolica». Vale a dire: loro devono rivestire gli eventi del medesimo significato per tutti. Spetta a loro definire, ricostruire il senso della storia che abbiamo vissuto. Suscitare una reazione emozionale condivisa. Questo è il fondamento che consente l’accadere dell’intersoggettività: riconoscersi una sola nazione.

Ammonisce la poetessa: «Se vorremo essere all’altezza del nostro tempo, non dovremo cercare la vittoria nella lama di un’arma, ma nei ponti che avremo costruito. Questa è la promessa con la quale arrivare in una radura, questa è la collina da scalare, se avremo il coraggio di farlo». Il Presidente poco dopo chiarisce: «Abbiamo molto da riparare, molto da ripristinare, molto da curare, molto da costruire e molto da guadagnare. Poche persone nella storia della nostra nazione sono state più sfidate o hanno trovato un momento più difficile in cui ci troviamo ora». Il Presidente e la poetessa hanno evocato l’impresa che attende l’America.

Il rituale in diretta tv della ri-unificazione
I simboli non sono un artificio utile per attirare l’attenzione degli americani assenti-presenti. I simboli rappresentano la trascendenza dei fatti sociali che il Paese ha vissuto. Eventi e simboli sono uniti nelle menti dei cittadini. Le emozioni provocate dagli eventi contagiano i simboli, le emozioni che suscitano i simboli coinvolgono gli eventi. Senza i simboli i sentimenti sociali avrebbero una vita breve. Sono loro che li rendono tangibili, identificabili. Come il nominare svela la realtà per poterla definire, così il simbolo contribuisce a rendere percepibile qualcosa che altrimenti rischierebbe di non esserlo. Ha scandito il Presidente: «Per superare queste sfide, per ripristinare l’anima e garantire il futuro dell’America serve molto di più delle parole. Serve la più sfuggente di tutte le cose in una democrazia: l’unità». Appena prima la poetessa ha gridato alla piazza imbandierata: «Essere americani è più di un orgoglio che ereditiamo. È il passato in cui entriamo ed è il modo in cui lo ripariamo». E ha aggiunto: «Se può essere periodicamente rinviata, la democrazia non può mai essere permanentemente distrutta».

Il Presidente e la poetessa hanno chiamato alla solidarietà sociale una nazione ferita. Hanno chiamato la mobilitazione per difendere il proprio glorioso passato. L’America è stata convocata per partecipare all’azione simbolica per eccellenza: il rito. È la cerimonia in diretta tv della ri-unificazione di un Paese diviso. La forza collettiva della società deve esprimersi attraverso un rito solenne che renda visibile ciò che si è: cittadini differenti e uguali uniti nella stessa comunità. Il rito ha il potere di rinsaldare e di creare legami. Con il rito gli uomini riaffermano la coscienza di appartenere alla stessa nazione. Ripetono il giuramento dei pionieri «che per primi hanno fatto la rivoluzione» (sempre Amanda). Il rito trasforma la storia collettiva in un mito: viene «incoronato» un nuovo presidente, la pubblica cerimonia gli attribuisce legittimazione, il nuovo commander in chief si sta trasformando (al di là delle sue stesse intenzioni) in un mito di rinascita. Si risveglia un sentimento di solidarietà. Gli americani si ritrovano lontani ma radunati sotto il palco dove odono parole comuni, provano sentimenti comuni.

I simboli non traggono la loro forza dal contenuto di verità che veicolano, ma dal fatto che essi significano per tutti allo stesso modo. Il consenso verso un sistema di credenze e di simboli sorregge (oltre il voto) la legittimazione del presidente. Le masse, ha scritto Gramsci, possono vivere la filosofia solo come fede. E non costruiscono le proprie convinzioni mediante un esame critico delle diverse idee politiche, ma le acquisiscono attraverso la società in cui vivono. Nella loro esperienza. Il rito e i simboli ricuciono la tela strappata dell’esperienza civile. Rispetto a Durkheim, un sociologo contemporaneo Luckmann compie un ulteriore passo nell’analisi. Nel rito l’azione simbolica è prioritaria, secondo Luckmann, perché consente di superare il confine tra una sfera di realtà, quella della vita quotidiana, e quelle che definisce le «grandi trascendenze». Si mettono in relazione cioè i momenti di passaggio del quotidiano con le azioni costitutive dell’esistenza.

La sacralizzazione della politica e l’America come religione
I riti collettivi, come la cerimonia del Presidente, tendono a sprigionare energie profonde, inconsce, che ricreano un orizzonte di significato e di legittimazione che è stato scompaginato dagli eventi. Scrive Luckmann: lo scopo dei riti è «di mettere direttamente in relazione con il cosmo sacro». L’uomo esercita nel rito una mediazione tra vita quotidiana e mondo delle grandi trascendenze. Emerge una nuova sacralizzazione della vita pubblica, che rientra nella concezione della politica simbolica.

Ha ammonito il Presidente: «La battaglia è perenne e non è mai assicurata. Attraverso la Guerra Civile, la Grande depressione, le guerre mondiali, l’11 settembre, la lotta i sacrifici e le battute d’arresto, i nostri angeli migliori hanno sempre prevalso». Prima di lui la poetessa: «Fateci vivere in un Paese che sia migliore di quello che abbiamo lasciato». E ancora: «Una volta ci siamo chiesti: Come possiamo avere la meglio sulla catastrofe? Oggi ci chiediamo: Come può la catastrofe avere la meglio su di noi?». «Non marceremo indietro per ritrovare quello che è stato, marceremo verso quello che dovrebbe essere».

La politica è il modo attraverso il quale gli uomini e le donne costruiscono il mondo a loro somiglianza. Non scompare il conflitto di interessi o di potere. Ma, insegna il sociologo francese Bourdieu, «il potere simbolico è il potere di costruire la realtà».

Il presidente, la poetessa, le due cantanti, in modo diverso sono ricorsi a quello che Bourdieu definisce il capitale simbolico e il suo potere di designazione, l’atto che «contribuisce a definire la strutture di questo mondo». Si deve ricominciare ristabilendo una visione della verità.

Per questo il presidente e la poetessa non temono di nominare la fede. La fede occorre per combattere le ingiustizie sociali, la priorità per Biden. Ci vuole fede per dire la verità e sconfiggere le menzogne che hanno avvelenato la sfera pubblica. Sono stati dei funzionari pubblici sconosciuti a dire la verità sulle elezioni regolari e la vittoria legittima di Biden, opponendosi alle manipolazioni di Trump. Biden intende dire il vero: «Non l’esempio del potere, ma il potere dell’esempio». E la poetessa; «In questa verità, in questa fede, noi crediamo».

Abbiamo di fronte non solo una democrazia ferita, che conferma il suo compito storico di restaurare «giustizia e verità». Abbiamo davanti una religione civile chiamata America. E il suo «destino manifesto». Vale a dire un sistema di credenze e valori che cementano la coesione sociale. Con un elemento in più: un radicamento, un vincolo di appartenenza condiviso simile a quello religioso. Per secoli la religione ha offerto il significato comune dell’esistenza. I due poli semantici civile-religioso cercano un reciproco riconoscimento e si rafforzano a vicenda. Sono un vincolo e un legame quasi sacro, sancito da una fiducia che non vacilla. Nella sfera civile viene integrato un vincolo religioso.

Come ha scritto il sociologo Bellah, negli Usa opera una fede minima comune indipendente dalla adesione individuale ai culti. Esistono convinzioni che accomunano gli americani che hanno conseguenze politiche, e che sono presentate nella Costituzione. L’America, per i padri fondatori, ha compreso ciò che Dio vuole dagli uomini, si considera la nuova Terra promessa nella quale costruire una democrazia che garantisce i diritti. La democrazia dei giusti. Come ha scritto Bellah è «comprendere l’esperienza dell’America alla luce delle ultime e universali realtà».

Riaffiora l’idea di Durkheim della religione come fatto sociale fondamentale che determina l’autoconsapevolezza di ogni comunità.  Del resto Rousseau aveva interpretato per primo l’idea della religione civile come la professione di una fede civile «della quale spetta al popolo sovrano fissare gli articoli». Dopo molte tragedie, nel giorno del giuramento del Presidente, è la poetessa colei che ha dovuto nominare l’essenza della religione civile oggi: «Essere noi stessi luce». L’esempio.


Bibliografia
Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Edizione Comunità, 1982 (1912)
Malinowski, Il problema del significato nei linguaggi primitivi in C.K. Ogden, I.A. Richards, a cura di, Il significato del significato, Il Saggiatore, 1966 (1923)
Jakobson, Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Feltrinelli, 2008
Turner, La foresta dei simboli, Morcelliana, 1976
Baudelaire, I fiori del male, Mondadori, 2013 (1857)
G.H. Mead, Mente, sé, società, Giunti, 2010 (1934)
Geertz, Antropologia interpretativa, Il Mulino, 1988 (1983)
Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, 1975
Luckmann, I riti come superamento dei confini del mondo della vita, in Studi di sociologia, III, 1987
Bourdieu, Language & symbolic power, a cura di J.B. Thompson. Cambridge, 1991
Bellah, La religione civile in America e in Italia, a cura di M. Bortolini, Armando, 2008 (1967)
J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Rizzoli, 2005 (1762)

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