In Europa si decide anche il destino dell’Italia

Enzo Lavarra

Nel frastuono delle polemiche che accompagnano le diverse ipotesi di candidature per le elezioni europee non si riesce, almeno finora, ad avere l’attenzione che merita uno dei temi centrali della prossima legislatura dell’Unione europea: la necessità di  revisione dell’impianto neoliberista.

Necessità  che  pure si riconosce  nelle parole pronunciate da Mario Draghi, come riporta Stefano Fassina su Huffpost,  prima a Washington, dove ha ritirato il Premio Paul Volcker dalla National Association for Business,  e di seguito in Belgio alla Conferenza sul pilastro sociale Ue con i sindacati europei. In entrambe le occasioni egli ha messo sotto la lente della critica il dogma del primato assoluto del mercato secondo cui in quanto generatore di ricchezza crea di per sé benessere per tutti .

«Abbiamo puntato a ridurre i costi salariali nel mercato interno gli uni contro gli altri (come Stati membri) con l’effetto di indebolire la domanda interna e minare il nostro modello sociale».

Per converso se si legge il Rapporto sul futuro del mercato unico dell’Unione europea redatto e presentato da Enrico Letta alla Commissione europea non si può non essere colpiti da una vistosa contraddizione: nella introduzione ritroviamo l’esaltazione ideologica del mercato unico e dei suoi presunti successi, nei capitoli interni invece la documentazione della crescita enorme delle disuguaglianze creato dai diversi  regimi fiscali, e specialmente dagli Stati a tassazione minima entrati dal 2004 nella Unione Europea. Gli stessi Stati che ora si oppongono alla proposta di Mario Draghi, della quale si dibatte in  Germania, Spagna, Francia, di ingenti investimenti pubblici e privati necessari (come con il Next generation e il Green Deal) per reggere la competizione internazionale sulla transizione ecologica  e digitale in primo luogo con  Usa, Cina e India.

A queste criticità della costruzione europea si aggiungono quelle che lo scrittore Antonio Scurati definisce le «democrazie illiberali» come Polonia e Ungheria, giudicando come non ben preparato l’allargamento  della Ue. (Nel PE FdI, Lega e FI hanno votato contro la censura all’Ungheria per lo smantellamento dello Stato di Diritto).

Altrettanto poco ponderato il nuovo allargamento a 37 Paesi, con regimi fiscali e livelli di protezione sociali abissalmente differenti e il dumping che ne consegue. Si potrebbe obbiettare che questa posizione critica porta ad abbandonare questi Paesi dell’est europeo al loro destino e sotto la minaccia russa. Nient’affatto. Ancora una volta la risposta è una Europa a doppia velocità. Come per l’euro. Con un gruppo di Paesi che decidono un livello più alto di integrazione su fiscalità, ambiente, difesa,  il resto degli attuali Stati membri che rimane nel quadro dei Trattati vigenti, e i Paesi candidati dentro una Comunità europea secondo la proposta Macron, con risorse per il loro progressivo adeguamento agli standard del Unione.

Questa è prova con cui devono misurarsi la sinistra europea e italiana per costruire una nuova Europa.

La destra di governo in alleanza con il nazionalismo etnico di altri paesi rimane ferma al regime del vincolo esterno, con le politiche della ristrettezza di bilancio, si chiama austerità (ne è prova l’approvazione, poi goffamente smentita, del Patto di stabilità che strangola la nostra economia). Sul piano internazionale si allinea acriticamente alla potenza americana per rivarcarne legittimazione. Ciò spiega anche come, per nascondere questa doppia subalternità, sul piano interno alimenti le spinte nostalgiche del «Dio, patria e famiglia», e ricorra a politiche securitarie  contro il dissenso  degli studenti così come contro i migranti. Nel frattempo,  accelera sulla via di forme di controllo politico sugli organi di garanzia dello Stato, sulla libertà di stampa, sul pluralismo culturale. Controllo che intende formalizzare col premierato del governo monocratico, operando di fatto  una cesura con la Costituzione repubblicana e antifascista, prendendo sostanzialmente a riferimento Orban.

Su questo è interessante il contribuito sull’antifascismo di Massimo Cacciari sul quotidiano La Stampa. Il filosofo veneziano, distingue fra la necessità della memoria condivisa sulle radici resistenziali della Repubblica e sui crimini nazifascisti e l’urgenza di una proposta della sinistra che non si limiti in modo esclusivo alla evocazione di  quella ragione fondante della nostra democrazia, ma che affronti i grandi temi dell’oggi creati dalle grandi concentrazioni finanziarie e di potere: crescita della povertà (anche del lavoro povero), spiaggiamento dei ceti medi, insostenibilità ambientale.

Come pure assai preziosa è, nella sua ultima pubblicazione in uscita, la tesi del professor Luciano Canfora sul populismo con l’avvertenza alla sinistra che non è sufficiente apostrofare la destra con la definizione di populisti, quanto piuttosto capire che la destra intercetta un problema e propone la zattera illusoria del neo-protezionismo.  Alla sinistra spetta risolvere le nuove contraddizioni, in una società socialmente più complessa della antica divisione fra due classi antagoniste. Complessità  che portano Luciano Canfora a ricomprendere nella dimensione e nella ridefinizione di popolo.

Queste le ragioni di una sinistra, del Pd e delle altre forze dell’area progressista, che deve incrociare  le sfide della contemporaneità con una strategia autonoma. Riconoscibile per i suoi contenuti a difesa del lavoro e dell’universalismo dei diritti, di quelli sociali come sanità e scuola così come di quelli individuali.

In questa ottica la campagna elettorale europea è l’orizzonte che incide e decide in maniera sempre più determinante il destino della nostra nazione.

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