La contro-narrazione dei campioni-eroi

Sergio Baraldi

L’uomo più veloce del mondo. L’uomo che salta più in alto e che ha condiviso la vittoria con il campione in carica Mutaz Barshim. Pochi giorni dopo aver vinto il campionato europeo di calcio, il Paese si specchia in una immagine nuova di sé stesso di cui forse non sospettava l’esistenza. La nuova immagine mostra una nazione che si sorprende di vincere. Si sorprende attraverso lo sport e le gesta straordinarie di due campioni, Lambert Marcel Jacobs e Gianmarco Tamberi. In dieci minuti la storia è cambiata. Ed è cominciata la costruzione di una narrazione, imperniata sull’identificazione collettiva in una epopea di imprese condivise dalla comunità, che si è stretta attorno alle figure degli atleti come a due idoli. Come intorno al totem di un mito.

Che Italia siamo se siamo capaci di questo? È così che riscopriamo la funzione dei campioni-eroi, della loro immagine, del mito, del rito in una società postmoderna avanzata. Il cuore antico di una società tecnologica ci rammenta che il declino delle «grandi narrazioni», come ha spiegato Lyotard, ha innescato una delegittimazione degli universi simbolici e delle istituzioni che per secoli hanno integrato i significati dell’esistenza. Quando entrano in crisi «orizzonti di senso» stabili, come quelli religiosi o politici del passato, altre e diverse narrazioni suppliscono a questo bisogno antropologico dell’uomo. Lo sport, il cinema, l’informazione con la loro spettacolarizzazione svolgono questa funzione fondamentale. La narrazione dei campioni-eroi consente alla comunità di rinsaldare il senso di appartenenza attraverso il rituale della festa per le medaglie. La liturgia televisiva della consacrazione dei campioni in eroi mediatici serve esattamente a definire la gerarchia di valori della società attraverso simboli, slogan, «luoghi sacri» in cui tutti possono riconoscersi. Le facce illuminate di gioia di Jacobs e Tamberi, le loro grida, i loro abbracci, i loro salti di esultanza come fossero guerrieri su un campo di battaglia, esprimono l’onnipotenza che pervade ogni singolo individuo che, come spiega David Le Breton, sente di essere sovrano della propria esistenza grazie alla sfida, affrontata confidando solo sulle proprie capacità. Attraverso i campioni, tutti diventiamo eroi della nostra esistenza.

La figura eroica, quindi, è un medium per accedere al nostro Sé più nascosto, per scacciare le forze disgregatrici dell’ansia, della paura di un mondo avvertito, soprattutto oggi con la pandemia, come ostile, incontrollato, privo di senso. L’eroe non è soltanto l’uomo dotato di qualità superiori o di carisma. Se si leggono le interviste dei due campioni emerge il ritratto di due giovani pieni di vulnerabilità, due ragazzi ordinari che ancora non si comprende perché siano loro i campioni (ma lo si comprenderà più avanti).

Il compito degli eroi è quello di mutare il cammino della storia. Di creare un nuovo senso, portando a termine un disegno scritto dal destino e per il quale essi erano attesi. L’eroe non deve offrire una ricostruzione razionale delle cose. Deve associare agli eventi una immagine superiore, che trascende la logica delle cose, che deborda, che costituisce una eccedenza di senso. E questa eccedenza dona alla comunità la rappresentazione di un mondo differente e di un Paese che può guardare diversamente anche sé stesso. I campioni-eroi sono così i testimoni, i demiurghi di uno slittamento della identità collettiva verso la dimensione simbolica ed emozionale. Ma per riuscire nell’impresa i campioni-eroi devono essere protagonisti di un viaggio pericoloso, attraversando una selva di prove, di sconfitte, di resurrezioni.

Veniamo a sapere del grave incidente che impedì a Tamberi di partecipare alle Olimpiadi di Rio e della sua lotta, della sua tremenda volontà di tornare in pista per salire sul podio. Jacobs, che vola oltre i 43 km orari, figlio di un soldato americano in una base del Nord e di una ragazza italiana, era prigioniero del trauma dopo l’abbandono da parte del padre. Il destino ha convocato i due eroi. Li ha messi alla prova. Li ha richiamati al dovere della salvezza per sé e per gli altri. Ma i due eroi hanno dovuto decidere da soli di non percorrere la strada dei comuni mortali e di accettare l’esperienza del sacrificio. Affinché il fato possa compiersi la predestinazione non basta. Occorre che il prescelto, ha insegnato Campbell, incontri l’ambiente in cui il sacrificio e il suo superamento possano svelare la sua venuta. Per i due atleti, come per i calciatori della nazionale, l’ambiente è stato lo sport. Impressiona come il canone narrativo segua la vita. O la vita segua il canone narrativo.

Dunque, l’eroe deve soffrire lo scontro tra bene e male, giusto e ingiusto, morale e immorale, affinché la sua comunità possa liberarsi da immeritate costrizioni, umilianti condizioni, vincoli oppressivi. Di modo che il successo dei campioni-eroi consenta anche agli individui comuni di ascendere indirettamente alla gloria. L’eroe traduce così in un evento (la vittoria) la forza mitica dell’immaginario collettivo. Impersona il Noi in cui abbandonarsi. Il suo successo rivela alla comunità il suo significato ultimo, indica qual è il suo posto nel mondo, unisce in un significato unitario passato, presente, futuro della nazione.

L’immagine di Tamberi che scambia la sua medaglia con l’altro campione ex equo Barshim pone sul podio l’amicizia solidale tra un bianco europeo e un qatariota islamico. Il gesto eccezionale dell’eroe annuncia l’esistenza di un senso che trascende le cose che ci circondano, un senso che può diventare norma sociale, grazie al principio ordinatore della sua azione. L’eroe deve richiamare questo senso altro, trascendente, nella sua relazione narrativa con una società che alla trascendenza sembra credere sempre meno. Lo sport diventa il palcoscenico sul quale le figure eroiche possono mettere ordine nel mondo e trasferire gli spettatori in una sfera dell’esperienza nuova, superiore e come tale avvertita come vera. Schutz direbbe una «provincia finita di significato». L’eroe incarna questo senso altro, trasforma un rapporto di forza sbilanciato, una sorte avversa in un successo. Libera gli spettatori. Il messaggio dei campioni-eroi è che i limiti umani si possono violare. È possibile superare l’impossibile.

La narrazione impone che l’eroe viva dentro di sé lo scontro che dovrà vincere fuori di sé sul campo. La sfida è interna prima che esterna. Anche per questo i campioni-eroi vengono caricati di una affettività che echeggia il mito. I gesti leggendari che i campioni riescono a compiere consentono alla collettività non solo di identificarsi, ma di restituire senso a un’esistenza quotidiana che appare povera di significato. E soprattutto ridefiniscono valori e priorità della comunità. È questo ruolo complesso che rende l’eroe sportivo una figura quasi sacra, il profeta di una pienezza dell’esserci. E che per questo scatena un’onda emozionale che l’avvolge, una passione che contagia. La dimensione estetica unita a quella emozionale diviene essenziale nella figura dell’eroe sportivo, rivelando così il suo debito con la tradizione greca. È l’estetica del corpo espressivo, del talento, della creatività, della vita attiva. Ma la potenza fascinatrice di Jacobs e Tamberi sembra derivare anche da qualcosa di profondo: l’etica del sacrificio. Secondo Berger e Luckman, l’uomo contemporaneo deve inscrivere la propria esistenza in un orizzonte di senso che sappia mantenere e rafforzare i significati della biografia individuale. Senza solidi ancoraggi di senso, la stessa stabilità dell’esperienza rischia di venire a mancare. Anche per questo la morte è diventata il rimosso oscuro della società del rischio e l’uomo cerca riparo in narrazioni del Sé che possano alleviare il pesante carico affettivo che deriva da questa rimozione. A differenza del passato, l’interiorità cede il posto a quella che Maffesoli ha definito il «vuoto delle apparenze».

Tuttavia, i due campioni-eroi, con la loro storia e con le loro gesta, sembrano mettere in atto una contro-narrazione rispetto al quadro descritto da Maffesoli. Essi rispondono a un ritorno dell’interiorità che preme nel sentire collettivo, al bisogno di riscoprire un Sé più autentico per costruire l’identità. La chiave della loro contro-narrazione risiede nel dolore che entrambi hanno patito e oltrepassato. Il loro percorso esistenziale è stato sofferto. La loro formazione sportiva travagliata prima che potessero governare la loro esistenza e sfidare il pericolo. Come ha spiegato Le Breton, il dolore «è il sacrificio che l’atleta accetta nel contesto di uno scambio simbolico» in base al quale il campione allarga la giurisdizione su di sé attraverso un controllo rafforzato dall’allenamento. Il dolore ha una parte centrale nella costruzione identitaria dell’eroe. Perché affrontare il dolore in una competizione con sé stessi, che dura anni, significa non piegarsi a una esistenza subita e «rinascere», spiega Le Breton, a una nuova vita in cui i limiti umani si possono cambiare. E il legame che ci unisce l’uno all’altro può essere riscoperto. Il dolore diventa così la fonte di senso in cui inscrivere la propria esistenza. Jacobs confessa, infatti, in una intervista: «Mi chiedo che senso abbia tutto questo, questa enormità, per me, per la mia vita di atleta e di uomo. E forse trovarlo, questo senso, fa parte di una sfida dentro la sfida». E Tamberi: «In questi giorni ho capito molte cose di me, come atleta e come uomo. Mi sento come se mi fossi liberato». E aggiunge: «Forse dobbiamo darci una tregua».

Gli eroi sono stanchi e per combattere ancora sentono di dovere comprendere ciò che hanno compiuto. Ma per noi, che li seguiamo e gioiamo con loro, la questione rimane rispondere alla domanda su che Italia siamo. Per farlo non dobbiamo cercare nell’Italia dei social dove regna la visibilità, l’emozionalità, il narcisismo. In realtà, i due eroi di Tokyo sono più vicini all’Italia che non compare sullo schermo dei media, quella che scandisce la propria storia individuale, con cadute e resurrezioni, nella difficile vita di tutti i giorni. La verità è che gli eroi ci somigliano. Somigliano all’Italia che anche nello sport cerca uno scudo contro l’ansia di un mondo percepito come incerto e dominato dalla sensazione della fungibilità e dell’inessenzialità delle biografie individuali e collettive. A questa Italia i campioni-eroi raccontano che l’ingovernabile si può governare. Che vive la speranza di un rinnovato governo della propria esistenza. Che ognuno di noi è l’eroe di sé stesso. Che vincere possiamo. Che vincere significa credere.


Letture

Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, 1979
Campbell, The hero with thousand faces, Princeton University Press, 2004
Schutz, Saggi sociologici a cura di A. Izzo, Utet, 1979
Maffesoli, Nel vuoto delle apparenze. Per un’etica dell’estetica, Garzanti, 1993
Berger e T. Luckman, Lo smarrimento dell’uomo moderno, Il Mulino, 1995
Le Breton, Antropologia del dolore, Meltemi, 2007

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