La guerra narrativa per la Casa Bianca

Sergio Baraldi

La partita tra Trump e Biden si gioca sulla scena della post-verità, al centro la narrazione per la conquista del senso comune americano. A quale storia crederà l’America?

La sfida tra il presidente Trump e il democratico Biden non sarà vinta dalla politica, dall’economia o dalla leadership, per quanto queste dimensioni pesino. Sarà vinta da una storia. Vale a dire da una narrazione dell’America e sull’America che i due protagonisti tessono nella loro campagna elettorale. Il campo del conflitto politico, quindi, è segnato dalla competizione tra i racconti dei candidati. A darcene una conferma è stato proprio il ricovero per Covid del presidente Trump. Colpito dalla malattia che aveva cercato di esorcizzare e di ridimensionare, Trump ha attuato una controffensiva dal letto dell’ospedale: dimostrare di essere più forte del virus. Per riuscirci è ricorso alla sua abilità di uomo di televisione: si è servito dell’immaginario. Dalla stanza in cui era ricoverato sono filtrate foto, video, tweet, c’è stata la discussa passeggiata fuori dell’ospedale per salutare alcuni fan. Ogni scena serviva per trasmettere alla nazione l’idea di una battaglia che lui stava vincendo.

Trump e l’immaginario che produce la realtà
Di colpo dalla visione degli spettatori è scomparso ciò che stava realmente accadendo nell’ospedale. La scena è stata occupata da uno schema generale, dalla sua configurazione formale pronta per essere tradotta in una vicenda specifica: la resurrezione di Trump. Del resto, la forma è il principio organizzatore che consente agli eventi di non apparirci come materia grezza, ma di acquisire una verità semantica. E la forma l’ha fornita l’immaginario. In passato l’immaginario è stato considerato come uno spazio creativo, ludico, affidato alla fantasia. Ma oggi sappiamo che la narrazione è il nostro modo per dare un senso a ciò che accade. Claude Lévi-Strauss [1] e la semiotica hanno spiegato che l’immaginario non opera, come si pensa comunemente, solo seguendo la realtà. Spesso esso precede la realtà. La indirizza. Abbiamo così un’idea dell’immaginario come uno spazio dinamico di pratiche culturali (rielaborazioni, allusioni, trasformazioni, metafore) che possono anche essere inverosimili, ma che sono in grado di immergerci nella realtà. La realtà non deve necessariamente venire prima e piegarsi all’immaginario, può accadere che l’immaginario prepari e preceda il reale. Trump si è servito dell’immaginario per produrre un effetto di senso che catturasse il pubblico: ha messo in piedi una fiction della guarigione per imporre al pubblico la sua realtà. Il suo ritorno, più forte di prima. Invincibile, ha detto. Trump si è così impadronito dell’agenda dei media e ha favorito un processo di rimozione collettiva di quanto stava accadendo: il suo ricovero, il ricorso all’ossigeno, l’uso di medicinali sperimentali. La malattia poteva solo trasparire dietro la creazione controllata dell’immaginario. La fiction è presto diventata un serial: l’uscita trionfale dall’ospedale, il ritorno alla Casa Bianca, il gesto pubblico di togliersi la mascherina. Ogni atto è apparso una sequenza costruita in modo tale che l’immaginario prefigurasse la realtà. Il colpo di scena televisivo, che non è detto gli faccia recuperare consensi, ha confermato che al centro della battaglia politica c’è la narrazione.

La narrazione come interpretazione
Il modello della struttura narrativa, il suo discorso, prevede che vi sia un gioco di alternative nel racconto e, soprattutto, che emerga la dimensione del senso, vale a dire la direzione e il significato che acquistano gli eventi. La storia attribuisce ai fatti una coerenza narrativa, rivela il desiderio di ordine e completezza che viene imposto agli eventi. Il mondo è raccontabile ed è raccontato. Ecco perché la campagna elettorale americana si è trasformata in una grande storia: non solo perché inciderà sul futuro della superpotenza Usa e dell’Occidente, ma perché gli americani e i cittadini di altre nazioni possono vedervi rispecchiate le loro passioni, i loro interessi, le loro ansie e i loro valori. Possono riconoscersi in una narrazione, nella sua prospettiva entrate a far parte del flusso della vita quotidiana.

Per linguisti, psicologi, neuroscienziati la nostra mente ha una inclinazione naturale alle connessioni narrative, tende a introdurle spontaneamente. Roland Barthes [2] ha scritto: «Il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti». In Usa si gioca la partita per il dominio del mondo e la partita è ora sintetizzata nella storia di Trump contro la storia di Biden. Due storie che parlano di americhe diverse. I due leader convocano due sistemi di valori e di credenze differenti. La storia alla quale crederà l’America vincerà.

È stato il linguista Greimas [3] a insegnarci che il senso si dà per via narrativa, in modo indipendente dalle intenzioni e dalla consapevolezza dei due sfidanti. La narrazione, infatti, è una forma di interpretazione. La struttura narrativa non appartiene agli eventi, ma viene scelta dall’interprete (i due leader e con loro tutti noi,) una scelta che diventa produttrice di significato. La narrazione in quanto interpretazione assorbe le dimensioni della politica, dell’economia, della leadership, della società, perché dà ordine e significato al mondo. Costruisce un frame, una cornice di riferimento. Tuttavia il conflitto tra narrazioni avviene in pubblico, è visibile alla platea degli elettori americani e delle persone connesse in tutto il mondo, che diventano l’audience dello scontro. Quella a cui assistiamo in tv, sui social, sui siti, sui giornali, dunque, è la guerra narrativa per la Casa Bianca. E la sfida ruota attorno a una domanda: che senso ha l’America?

La messa in onda della post verità
La messa in scena delle storie di Trump e di Biden ha come contesto comunicativo, come sfondo quella che potremmo definire la post-verità. Il termine post-verità è balzato al centro dell’attenzione degli studiosi quando fu eletta parola dell’anno nel 2016 dagli Oxford Dictionaries. Il termine indicava un discorso «relativo o descrittivo di circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica del ricorso all’emozione e alle convinzioni personali». Si tratta di una strategia retorica e persuasiva in cui prevale la componente emozionale, soggettiva rispetto a quella riferita ai fatti. Si potrebbe aggiungere, seguendo il dizionario Treccani, che le credenze sostituiscono i fatti. Si pone qui il problema della affidabilità di quanto viene dichiarato.

La post-verità ha finito per diventare un termine ombrello in cui confluiscono disinformazione, manipolazione, pluralizzazione delle versioni dei fatti. Ma qui lo utilizzerei come il regime discorsivo che caratterizza la società mediatizzata del presente e che ha a che fare con i modi con cui costruiamo la verità. Una definizione che chiama in causa i media, che funzionano come sistemi modellizzanti della realtà, proprio come il linguaggio che è il sistema modellizzante primario.

La questione è che la realtà rappresentata dai media non deve essere intesa come qualcosa che sta fuori di noi, autonoma, oggettiva, che viene rispecchiata sulla superficie dei media. Ma è un reale che i media appunto mediano, costruiscono, modellano, secondo paradigmi valoriali, identitari, comunitari con cui tutti agiamo nel mondo. I media sono ambienti in cui ogni giorno si elaborano e si depositano schemi per capire, inquadrare, classificare la realtà in cui viviamo. Il problema della post-verità consiste nel fatto che essa a volte nega la verità, più spesso procede per semplificazioni e estremizzazioni, ma soprattutto moltiplica, privatizza la verità: ciascuno è autorizzato a produrre la sua personale verità. Si perde un riferimento oggettivo, mentre acquista importanza l’identificazione, la proiezione, la soggettività, l’emozione.

Le narrazioni di Trump e Biden raccontano due diverse verità. Il presidente uscente impersona l’America che si sente sconfitta dalla globalizzazione e minacciata dalla diversità, individualista, centrata su mercato, che pensa di risolvere i suoi problemi ripiegando su se stessa, sui propri confini, sulla propria la comunità, che è innanzi tutto la comunità bianca. La matrice profonda dei suoi valori è quella dell’ordine, dell’autoritarismo, del nazionalismo etnico. Non è solo una America di destra, è un Paese disorientato che cerca riconoscimento e identità.

Biden invece recupera il racconto di un’America che vuole curare le sue diseguaglianze, che vuole tutelare i suoi interessi senza rinunciare all’apertura al mondo che l’ha resa grande, che non dimentica la solidarietà, che vuole rimanere una frontiera di libertà e di diritti, che ricerca la propria unità perduta. Il suo nucleo profondo sembra il tema della giustizia, di una identità che non sia fondata sul conflitto noi-loro, cioè sul nemico. Non è solo una America democratica, è una nazione che chiede una nuova normalità, una nuova concretezza rispetto ai problemi giornalieri delle persone. Dopo un presidente che ha diviso la società dall’alto, essa attende una figura capace di rassicurare, riconciliare, riunire dal basso.

I due candidati, tuttavia, non producono solo la loro versione del mondo, ma una versione del mondo che vorrebbero fosse la verità vera. Anche i due elettorati si confrontano dai lati opposti della verità. La polarizzazione della società, quindi, sembra basarsi su due diversi regimi discorsivi, su narrazioni che presuppongono identità e visioni del mondo differenti. La durezza della campagna elettorale sembra nascere dal fatto che in un mondo di verità e identità multiple, frantumate, divergenti, se la verità è «quello che dico io» e c’è un accordo sociale sulla mia, essa deve essere imposta con la forza della maggioranza. In più le persone sentono sempre meno il bisogno di una legittimazione istituzionale; non riconoscono facilmente un’autorità epistemica (gli esperti o gli studiosi). Quello che legittima la presa di parola diventa l’esperienza e la sua condivisione sociale.

Trump ha offerto un esempio di questa nuova sensibilità. Ritornato alla Casa Bianca, ha annunciato di avere «imparato la lezione» ed ha attaccato Biden (che aveva sospeso la sua campagna) sostenendo che l’esperienza della malattia gli ha consentito di capire il virus più di Biden, che non si è ammalato. Quindi da presidente rieletto Trump sarebbe in grado di combatterlo meglio dell’avversario. Un’affermazione che rimuove il fatto che l’America di Trump ha contato finora 210 mila morti. Che ignora il fatto che essersi ammalato non significa conoscere la malattia, sapere come curarla, come reagire. Trump utilizza abilmente un meccanismo oggi diffuso: è la propria esperienza, il proprio vissuto che orienta le scelte degli individui, dopo che l’orizzonte di una verità condivisa è entrato in crisi. Trump spera così di innescare un’identificazione degli elettori: «Vedete, sono come voi». La mancanza di un accordo sociale sulla verità lascia gli individui soli in uno spazio pubblico privo di una verità legittima, nel quale convivono racconti diversi e divergenti, senza gerarchie, dominato dall’incertezza e dalla confusione. Di fronte a questo spazio mediatico saturo di messaggi contrastanti, il rifugio nel vissuto individuale appare una scelta diffusa, ma carica di rischi. Costituisce un mondo rinchiuso in piccole verità.

Le emozioni e il ruolo modelizzante della tv
Se la verità si dà in una «tacita intesa» tra gli individui, come dice il linguista Greimas [4], allora il punto è credere ai discorsi più che constatare, verificare, riflettere sui fatti. Il problema diventa un problema di fiducia. La fiducia nelle istituzioni, nelle agenzie del sapere e dell’informazione, è entrata in crisi. Ma questo non ha significato la sparizione della fiducia. Essa si è spostata su patti fiduciari più vicini, circoscritti, controllabili: la famiglia, gli amici, la comunità territoriale. È evidente come gli stati emotivi acquistino una nuova rilevanza. La verità non è più tanto oggetto del conoscere quanto diventa oggetto del sentire. Il soggetto tende a fidarsi innanzi tutto della propria esperienza percettiva, dei propri sentimenti. Si potrebbe affermare: mi fido di più di chi sente quello che sento io, di chi reagisce come reagisco io.

Diventa più chiara l’operazione retorica che Trump compie con l’istinto dell’uomo di spettacolo. Come spiega la professoressa di semiotica, Lorusso [5] prevale una retorica della autenticità «che è proprio una declinazione esperenziale del valore della verità». Ma occorre sottolineare che l’autenticità può darsi anche dentro una finzione, soprattutto in politica. Un esempio famoso può essere il contratto con gli italiani di Berlusconi in Tv a Porta a Porta. Se si costruisce qualcosa finzionalmente, ma è verosimile, rispecchia lo stato emotivo dell’audience, di chi ha vissuto un’esperienza simile, allora potrà essere creduto come vero. È la narrazione di Trump: l’esperienza della malattia gli farebbe capire il virus, rovesciando il ragionamento che si è ammalato proprio per la sua sottovalutazione dell’epidemia. Lo stesso processo che, in un altro ambito, ha portato i ceti operai bianchi a premiarlo per la chiusura verso l’immigrazione o per aver affermato la necessità di tornare a produrre in Usa. La credibilità dei discorsi si fonda, dunque, sulla fiducia verso il soggetto che fa il discorso e rivendica una rappresentanza. Come diceva Foucault [6] abbiamo a che fare con la «drammaturgia del vero». Nelle scene discorsive della società la legittimità di ciò che è vero ha meno a che fare con gli stati di fatto e più con il complesso governo della esperienza.

Il laboratorio di questa trasformazione sociale è stata la televisione. Dopo la contaminazione dell’informazione con l’intrattenimento (l’infotainment), prima c’è stata la tv verità poi i reality. Trump per 11 anni è stato produttore e conduttore della trasmissione The Apprentice nella quale metteva in palio il posto di manager nelle sue aziende. Il reality ha avuto successo, è stato copiato nel mondo (Trump ha guadagnato 429 milioni di dollari, stando alle sue dichiarazioni dei redditi). È diventata famosa l’ingiunzione che Trump urlava al competitore perdente: «You are fired!» (sei licenziato!) tra gli applausi degli spettatori.

È questa tv che ha abituato gli spettatori a valorizzare le emozioni. Al punto che la verità televisiva di Trump ha oscurato i fallimenti e gli scandali che hanno colpito le sue aziende. Quando alla tv si è affiancata la rete e poi i social, cioè altre piattaforme che interagiscono con il quotidiano dello spettatore, si è costruita una nuova dimensione in cui vero e falso si ibridano, dentro e fuori della nostra quotidianità, prodotti e produttori della fruizione. Queste trasmissioni ci hanno allenato a una adesione emotiva ai suoi portavoce (o di antipatia) basata su identificazione e proiezione. Già nel 1981 Umberto Eco [7] aveva colto in pieno il ruolo modellizzante della Tv in questa trasformazione che, in quegli anni, era appena cominciata: la verità non dipende più dalla rilevanza di ciò che viene detto, dalla competenza di chi parla, ma dal fatto che chi parla, con il suo vissuto, è in primo piano con le sue illusioni ed emozioni. «Il rapporto tra enunciati e fatti diventa sempre meno rilevante – scriveva Eco – rispetto al rapporto tra la verità dell’atto di enunciazione e l’esperienza ricettiva dello spettatore».  La Tv ha reso il voyerismo un elemento cruciale, ponendo al centro dell’attenzione il giudizio sociale su ciò che è normale, deviante, desiderabile, condivisibile. Un processo che forse ha favorito anche la presa di parola che si è affermata nel regime della post-verità. Il professore Mirzoeff, docente a New York [7], ha definito questo nuovo panorama mediatico new media reality, dove dominano la semplificazione e l’estremizzazione delle posizioni in modo da suscitare sorpresa.

La verità è una storia convincente
L’ibridazione tra vero e falso, la finzionalizzazione crescente della realtà, su cui si è basata la televisione degli ultimi anni, ha posto al centro delle pratiche interpretative il regime di credenza. Non sono i fatti da valutare e ricercare, ma tutto dipende dal proprio sistema di convinzioni in un gioco tra realtà e finzione tra piattaforme diverse (tv e internet). I social hanno amplificato questa dinamica. Sembra di ascoltare il filosofo Willard Quine [8] che aveva previsto che le verità dipendono da un sistema di assunzioni culturali, che non si dà più in corrispondenza a stati di fatto, quanto in corrispondenza a credenze, presupposti, paradigmi socio-culturali. Credenze che devono essere condivise e legittimate dalla società. Le sceneggiature narrative costruiscono storie che producono il senso che ci fa credere alla sua verità. La verità, quindi, è una storia convincente. Ma come persuade? Occorre costruire un racconto che si inserisca in una sceneggiatura narrativa consolidata, interiorizzata dagli individui, che viene data per ovvia. Per esempio: la corruzione dei politici, pagare troppe tasse, le donne seduttrici. Si deve aggiungere un caso nuovo, vale a dire un caso che conferma ciò che ci è familiare, che sia più estremo in modo da attirare l’attenzione: esso conferma i frame noti e potenzialmente può intrattenere di più. La storia così può non essere vera, ma è una bella storia. Lettori e telespettatori non controllano ma ne sono colpiti, non sono scettici perché la storia è già legittimata socialmente («Vero, i politici sono corrotti»). Gli individui cercano innanzi tutto conferme a ciò che già pensano.

Tuttavia le credenze non sono soggettive, dipendono dalla comunità interpretativa. Per questo la posta in gioco tra Biden e Trump è la conquista del senso comune americano. Vale a dire quell’insieme di conoscenze condivise con gli altri che non ha bisogno di essere interrogato, che viene dato per scontato, naturale. È ciò che sappiamo senza bisogno di dircelo. E sul quale vengono costruite le sceneggiature narrative. Trump, quando ha vinto le elezioni, ha saputo raggiungere il senso comune di allora: per tornare grande l’America deve difendersi e difendere l’elettorato popolare bianco. Era il senso comune sedimentato in molti strati della società.

Ma il senso comune dell’America di oggi crede ancora alla storia di Trump? O invece la sua pessima gestione della pandemia, la disoccupazione, il suo estremismo, hanno diffuso un bisogno di un cambiamento e insieme di normalizzazione? Il sentire americano forse cerca una figura saggia, che restauri l’autorevolezza della presidenza, che sappia curare ferite e squilibri delle emergenze sociali e sanitarie che indeboliscono profondamente l’America. Ma riappacificando e rassicurando il Paese. Non a caso l’impegno più importante di Biden è sembrato quello di «restituire un’anima all’America».

Forse proprio la narrazione di Trump ha suscitato la domanda di una contro narrazione. Forse l’America avverte il bisogno di passare da quella che Borgognone [10] ha definito una presidenza privata a una presidenza pubblica quindi comune. Per questo i sondaggi sembrano indicare come possibile la vittoria di Biden. Le aspettative sociali sembrano orientate verso un ritorno alla fiducia fondata su una nuova storia convincente. Forse l’America immagina un altro senso. La risposta arriva.


Bibliografia

  1. Claude Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, Einaudi 2008
  2. Roland Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, in AA.VV. L’analisi del racconto, Bompiani, 1969
  3. Algirdas Julien Greimas, Del senso 2, Bompiani, 1984
  4. Algirdas Julien Greimas, Del senso 2, Bompiani, 1984
  5. Anna Maria Lorusso, Postverità, Laterza, 2018
  6. Michel Foucault, Mal faire, dire vrai, Presse universitaires de Louvain, 1981
  7. Mauro Wolf con Introduzione di Umberto Eco, Tra trasformazione ed evasione, Rai Eri, 1981
  8. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, 2002
  9. Willard V. Quine, Parola e oggetto, Il Saggiatore, 1970
  10. Giovanni Borgognone, House of Trump, Bocconi editore, 2020

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