L’uomo che ha ritrovato Gioele: la voce nel nostro deserto

Sergio Baraldi

L’uomo che ha ritrovato Gioele, il piccolo scomparso assieme alla madre, è un brigadiere dei carabinieri in pensione, che aveva deciso di unirsi alle ricerche dopo un’attesa lunga e disperata. Giuseppe Di Bello è così diventato, suo malgrado, un personaggio che deve comparire davanti alle telecamere, circondato dai cronisti, per narrare una storia. In quel momento, però, avviene un fatto inaspettato: in modo naturale, quasi senza volerlo, il suo racconto fa irrompere sulla scena mediatica il potere di convocazione. Per linguisti e studiosi di comunicazione, il potere di convocazione è la voce di colui che si fa sentire nonostante il rumore di fondo. La voce che viene captata nel flusso del discorso mediatico, che suscita, e quasi crea, l’ascoltatore. Giuseppe si presenta come una persona semplice: pesa le parole, è un uomo di buona volontà, traspare il suo tormento per il piccolo Gioele. La narrazione che svolge davanti alle telecamere zittisce la risonanza del flusso informativo. Si fa silenzio. E non avviene soltanto perché racconta la tragedia di Gioele. Lui, spontaneamente, riesce a fermare l’attimo, sospende la catena dei commenti vuoti. Sembra raccogliersi presso le cose accadute, lascia che esse si annuncino.

È una vox clamans in deserto, voce che grida nel deserto. Non dobbiamo immaginare il deserto come un luogo vuoto, ma colmo di una sola essenza: sabbia e pietra. Il deserto moderno è pieno di segnali mediatici, sovraccaricato di discorsi, saturo per l’abbondanza dei messaggi, che rendono il mondo più opaco. È un deserto semiotico. Noi tremiamo per Gioele, ma l’uomo che lo ha ritrovato non racconta solo una storia terribile. Lui racconta di una speranza perduta, e nel farlo rivela la forza di suscitare un uditorio, di radunare gli ascoltatori. Noi abbiamo subito riconosciuto quella voce nel rumore del mondo. Possiamo immaginare, infatti, l’ex brigadiere in divisa, una vita perbene, dedicata al dovere di prendersi cura della sua comunità. La sua semplicità cancella la falsa retorica giornalistica dell’eroe. Ernst Junger ha scritto che descrivere la semplicità è la cosa più difficile, perché è vicina «al senza nome». E il brigadiere lascia che l’indicibile si annunci per cenni. Spiega il suo arrovellarsi per il piccolo, che quasi non dormiva più la notte, evoca la sua solitudine.

Qui compie la prima mossa discorsiva: compare la moglie. Lei lo vede preoccupato, allora la donna a sua volta lo convoca: «Tu conosci i boschi, perché non vai?». Ecco la prima convocazione, che non ha il fine di imporre il discorso all’altro, ma rappresenta un invito, perché costruiscano insieme il dire. Il discorso convocativo, incardinato nella relazione io-tu, richiede la partecipazione dell’altro e sottopone il linguaggio a una torsione: lo svincola da significati codificati, stereotipati, consueti per aprirlo a nuove possibilità. «Perché non vai?». Riusciamo a collocare il colloquio nel loro vissuto: il brigadiere accenna a piccole cose, piccoli gesti, piccoli momenti. La convocazione della donna provoca un cambiamento nell’uomo: lui supera il pudore, il riserbo di carabiniere ormai in pensione, prende la sua piccola falce per addentrarsi nel bosco. Non risponde «sono io», ma quasi ricordando il filosofo Heidegger: «Sono qui». Il potere di convocazione, a differenza della seduzione, così utilizzata in politica, coinvolge l’altro, gli chiede di impegnarsi nell’interpretazione del significato. Il se stesso come l’altro, ha scritto Ricoeur. La convocazione ha il fine del cambiamento dei parlanti. E così avviene.

La narrazione dell’ex brigadiere introduce una seconda mossa. Come ha fatto a trovarlo da solo, gli chiedono? Giuseppe risponde con mitezza: «Non l’ho trovato io, è stato Gioele quasi a farsi trovare». Ecco comparire la figura del corpo convocante che costituisce il suo trovatore. È come se il bambino avesse deciso di riemergere dal buio. E avesse scelto da chi farsi riconoscere. L’ex carabiniere accorato raffigura il piccolo che si incammina solo verso il buio. Ma lei come ha fatto, insistono i cronisti? E l’ex brigadiere risponde paziente: «Ho ragionato come ragiona un bambino». Ancora una volta il suo racconto allontana l’attenzione da sé, cerca di indirizzarci verso la situazione, verso Gioele. Si potrebbe dire: contro la logica della spettacolarizzazione in cui pure è immerso, egli decentra da sé. Non è lui a essere importante, ma Gioele. Si affida al mistero: «Ringrazio Dio». Questo gesto semplice allarga il confine della scena mediatica ad altri protagonisti. Ma chi? Ecco la questione: siamo noi. Noi che stiamo guardando e ascoltando. Convocati da lui, che ha bisogno di noi per costruire un senso dell’accaduto. L’altro convocato è l’audience posta dietro lo schermo.

Sartre ha scritto che l’altro è «colui che mi guarda, la mia possibilità permanente di essere-visto-da-lui…». Il potere di convocazione si dispiega attraverso la figura dolente del carabiniere, che chiama a partecipare all’interpretazione di quello che è successo un pubblico affranto. L’essenza del potere discorsivo del brigadiere è l’attivazione dell’altro che lo guarda, che lo ascolta davanti alla tv o mentre legge il giornale, chiamato da lui. Il suo è un discorso, che è un movimento verso l’altro, rivolto ad esso: l’audience. Davanti al corpo martoriato del piccolo Gioele, occorre riorganizzare le cose di quel mondo circostante così colmo di dolore. Occorre assegnare un nuovo ordine, un nuovo (possibile?) significato a un evento perturbante. Occorre la tragica capacità di comprendere. Emerge la dimensione etica del potere di convocazione, che non è risposta, non è domanda, ma invito. La convocazione esercitata dall’uomo che ha ritrovato Gioele svela il suo essere un appello tacito, che interroga l’audience per tentare di decifrare gli eventi, ma interpella anche noi stessi dentro una drammatica esperienza. Noi, il pubblico, siamo convocati per la produzione di un senso. Gioele, colpito dal male, è figlio di tutti noi.

Ma noi possediamo la semplicità per porci in ascolto? Abbiamo l’innocenza per attingere nel profondo alla fonte del linguaggio, dove la parola è silenzio e il silenzio parola e ritrovare il senso perduto? Il filosofo Buber ammonisce che non esiste un io sostanziale, ma sempre una relazione con un tu. Siamo affranti per il destino di Gioele, eppure ci scuote la consapevolezza che abbiamo smarrito lo stato di grazia che ci consentirebbe di esprimere la parola autentica del vivere. Quella semplicità che testimonierebbe la nostra mancanza nel proteggere Gioele e tutti i Gioele del mondo, e assumercene la responsabilità. La convocazione del brigadiere ci pone di fronte a quello che il filosofo Levinas chiamava il «viso dell’altro», a quella autenticità che spesso non abbiamo saputo conservare, perché non vi abbiamo creduto. Ma non il brigadiere Giuseppe. Non il piccolo Gioele. Loro no. Loro hanno conservato l’innocenza. E ora sono le voci nel nostro deserto.

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