Quel Natale a San Paolo del Brasile, tra caldo e nostalgia

Darwin Pastorin

Sono nato in Brasile, orgoglioso figlio nipote e pronipote di migranti veneti. E al mio Brasile penso spesso, con una fortissima saudade del passato e, come ci ha insegnato Antonio Tabucchi, del futuro.

Ricordo ogni momento della mia infanzia, quanto erano ancora tutti vivi: le partite a pallone nella strada del mio quartiere (Cambuci), il mio aquilone colorato che accarezzava le nuvole, la mia squadra del cuore: il Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia, gli abbracci di papà e mamma, le corse e rincorse con i miei fratelli e cugini, Il Corsaro Nero e Sandokan, le favole di Monteiro Lobato.

E poi il Natale. Come racconto nel libro Adesso abbracciami, Brasile.

Il Natale per me voleva dire sole abbagliante. L’inverno brasiliano è come la nostra estate: maglietta e pantaloncini e la voglia di cercare, durante il giorno, un angolo all’ombra per avere un po’ di fresco. In casa facevamo l’albero e mi stupivo nel sentir parlare di neve dai miei genitori. Quella roba bianca gelata che scendeva dal cielo: mi sembrava una storia inventata lì per lì piuttosto che una faccenda vera. Come facevano dei fiocchi gelati venire giù dal cielo: boh.

Il momento dell’apertura dei pacchi, come capitava a tutti i bambini del mondo, rappresentava una specie di paradiso in terra. E io, di quegli anni a San Paolo, non dimenticherò mai i miei primi regali: un camioncino di plastica azzurro e un cavallino fatto con il legno compensato da mio padre. Non potevo chiedere niente di meglio.

Poi si pranzava tutti insieme, parenti e amici. E tanti discorsi erano dedicati all’Italia. A quell’Italia mai dimenticata. Sentivo i miei nonni parlare dialetto veronese, rimproverati dai miei: «I ragazzi devono imparare l’italiano! Facciamo uno sforzo tutti insieme…».  Impresa che falliva miseramente: usare il dialetto significava sentirsi meno lontani, recuperare le voci della strada, del mercato, di San Zeno e della Casa dei Ferrovieri.

Ecco: questo è il racconto di un mio Natale a San Paolo. Quando tutti i sogni erano ancora possibili. E ogni giorno, nel suo segreto, racchiudeva bellezza e meraviglia.

E quando torno in Brasile recupero le stagioni felici della mia infanzia. Respiro aria di casa, di rimpianto, di leggerezza. Mi rivedo con i miei amici, miei coetanei, mulatti, musulmani, ebrei, giapponesi, inseguire una palla di plastica e la vita.

Eravamo bambini felici, non importava il colore della nostra pelle, la religione dei genitori.

, in quel tempo così intenso, così abbagliante, ho subito capito qualcosa di importante: il razzismo non deve esistere, il razzismo va combattuto con tutte le nostre forze, senza tregua.

Nel 1958, quando avevo tre anni, ci fu una grande festa per la vittoria della Nazionale verdeoro ai mondiali svedesi. Era la Seleçao del ragazzino Pelé, dell’elegante portiere Gilmar, di un centravanti destinato a diventare un mio fratello: José Altafini, di Nilton Santos soprannominato enciclopedia del calcio e, soprattutto, dell’ala destra Mané Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, l’analfabeta che sapeva interpretare il canto dei passerotti, il giocatore narrato da poeti e musicisti.

Scrisse Carlos Drummond de Andrade, celebrando Mané, sul Jornal do Brasil: «Fu un povero e semplice mortale che aiutò un paese intero a sublimare le sue tristezze. La cosa peggiore è che le tristezze ritornano e non c’è un altro Garrincha disponile. Ne occorre un altro che continui ad alimentarci il sogno».

Agli appassionati di football, per queste vacanze natalizie, consiglio di cercare su internet le prodezze di questo giocatore dalla finta magistrale, un campione chiamato «allegria della gente»: troverete mito, epica, stupore, letteratura, magia.

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