25 aprile: un giorno da festeggiare sempre

Mirco Carrattieri

A quasi 80 anni dalla Liberazione, ha ancora senso festeggiare il 25 aprile? E se sì, come?

Da più parti si alzano voci che ne denunciano l’obsolescenza o la divisività.

E l’Italia si è data, tramite libere elezioni, un governo fatto da partiti nessuno dei quali si richiama a quella esperienza; e in cui anzi addirittura la formazione di maggioranza appartiene a una tradizione ad essa contraria.

Porsi la domanda, che sarebbe suonata assurda anche solo trent’anni fa, è dunque non solo lecito ma doveroso: per quanto a molti di noi possa suonare strano e spiacevole, festeggiare il 25 aprile non è più scontato, né sentito da molti italiani.

Va ricordato che la festa fu istituita nell’aprile 1946 dal governo De Gasperi, ancora composto dai partiti del Cln, quando ormai però il «vento del nord» si era placato.

La data scelta fu significativa e impegnativa: non il 2 maggio, data dell’entrata in vigore della resa tedesca; non l’8 maggio, fine della guerra in Europa; ma il 25 aprile, il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, il supremo organo politico della Resistenza, aveva proclamato l’insurrezione generale.

A evidenziare il fatto che la Liberazione era arrivata sì per mano degli angloamericani; ma con il concorso attivo e significativo degli italiani stessi.

La natura festiva della giornata fu poi formalizzata nel 1949, quando peraltro si fissava come festa nazionale il 2 giugno.

Da allora il 25 aprile è rimasto una festa importante, ma che per molti versi non è riuscita a raggiungere le vette di consenso che si registrano in altri paesi per le celebrazioni nazionali: per le differenze di sensibilità tra Nord e Sud (già liberato l’anno precedente e poco coinvolto nella Resistenza armata); per la diversa gestione della memoria resistenziale, fortemente deformata e strumentalizzata dalle logiche della guerra fredda; da ultimo per la crisi della cosiddetta Prima Repubblica che da quella stagione traeva la sua legittimazione.

Indubbiamente nel 2023 non hanno più senso visioni mitologiche e oleografiche della Resistenza, funzionali nel dopoguerra soprattutto a esorcizzare il Ventennio e poi adottate dagli eredi dei protagonisti per difendersi da una pesante offensiva antipartigiana (ricostruita da un recente volume di Michela Ponzani).

Oggi sappiamo che la Resistenza è stata un fenomeno minoritario (ma si tratta comunque della più grande mobilitazione volontaria della storia dell’Italia unita); che è stata divisa al suo interno (ma non al punto da mettere in discussione la comune battaglia contro il nazismo e il fascismo suo alleato); che non è stata priva di macchie e di ombre (ma essendo un fenomeno umano non poteva essere diversamente; e questo non cancella ma anzi esalta le sue pagine più chiare e luminose).

E decliniamo la Resistenza al plurale: ricordando le brigate partigiane di montagna, ma anche la loro interazione con alleati e esercito badogliano; la vicenda degli Imi; le varie forme di Resistenza civile.

Oggi abbiamo anche chiaro che l’antifascismo, substrato e matrice della Resistenza più consapevole, non può più essere l’unico pilastro della nostra democrazia, nella misura in cui abbiamo una idea più ampia delle minacce totalitarie maturate nel Ventesimo secolo; ma anche perché nei decenni successivi molti altri temi e problemi sono comparsi all’orizzonte; e soprattutto perché sappiamo che nel presente  non è il ritorno di Mussolini il rischio principale per il Paese (il che, sia detto per inciso, non esime dal rilevare pericolosi ritorni…di fiamma per il regime, ma soprattutto rinnovate forme di discriminazione, autoritarismo e violenza che di quella buia stagione riprendono con troppa disinvoltura  elementi non irrilevanti).

Ma usare questi temi per screditare o anche solo sminuire la Resistenza è a mio parere sbagliato e pericoloso: noi non solo possiamo, ma dobbiamo rinvigorire e rilanciare la conoscenza e la celebrazione della Resistenza, che è stata e deve ancora costituire il perimetro invalicabile e irreversibile della nostra democrazia.

Quella esperienza storica, infatti, ci caratterizza come comunità politica; e ci sollecita una costante riflessione, autocritica e feconda, su diversi piani.

Innanzitutto quello morale: la scelta dell’8 settembre 1943, così ben illuminata da Claudio Pavone, è stata una eccezionale assunzione di responsabilità individuale in una situazione di mancanza di riferimenti, tanto più difficile dopo vent’anni di cieca obbedienza.

Come ci ha mostrato soprattutto Giovanni De Luna essa dunque segna una discontinuità significativa; e apre prospettive inedite, la cui non piena realizzazione nulla toglie al loro valore.

Ma c’è poi anche il punto di vista politico: lo stesso Pavone concludeva non a caso il suo libro sul «ritorno della politica» come esito della dinamica resistenziale. Dalla scelta morale individuale si passa cioè alla ricostruzione di un ethos civile e quindi alla ridefinizione del demos.

Vale per il tessuto delle comunità locali lacerate dalla guerra totale e da quella civile.

Vale a maggior ragione per il contesto nazionale.

E qui corre l’obbligo di dissociarsi dalle pericolose tentazioni di rigurgito nazionalista che oggi siamo soliti definire sovranismo: la Resistenza non è stata un fenomeno antinazionale, perché ha combattuto la nazione fascista per costruirne un’altra, quella repubblicana e democratica.

Ma altresì, la Resistenza non è stata solo prosecuzione dell’epopea risorgimentale e guerra di liberazione nazionale, come la pur lodevole retorica ciampiana e ora la vulgata cazzulliana ce la presentano per stemperarne le asprezze, quasi a tornare alla «Resistenza tricolore» degli anni Sessanta.

La Resistenza, sempre per rimanere a Pavone, è stata anche guerra civile e lotta di classe, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di confronto ideale e conflitto sociale (compreso l’uso della violenza), che non devono esserne espunte in nome della correttezza politica, ma adeguatamente contestualizzate, comprese, spiegate.

La Resistenza, complessivamente intesa, è stata una proposta, pur accidentata e composita, di un’altra idea di Italia rispetto a quella fascista, ma anche a quella liberale; e da essa derivano la scelta repubblicana, la conquista del suffragio femminile, una Costituzione che promuove più moderne forme di rappresentanza e diritti sociali prima non garantiti (e per certi versi neanche concepiti).

Una Costituzione che declina l’individuale in forma personalistica; e che esalta le formazioni intermedie tra il cittadino e lo Stato, senza ridurre quella nazionale a identità unica ed esclusiva.

E in effetti il richiamo alla Resistenza è importante anche per l’Europa, accomunata a suo tempo dall’occupazione nazista e dalla polarità collaborazionismo-opposizione che essa innesca, pur con caratteri diversi, in ciascun paese coinvolto; che durante la Resistenza vede stabilirsi contatti internazionali, svilupparsi dinamiche transnazionali e elaborare prospettive postnazionali; che dopo il conflitto si ripensa e ricostruisce proprio per esorcizzare quella tragedia e impedirne il ritorno.

Tema ancor più pressante oggi, con il ritorno della guerra guerreggiata sul suolo europeo; e più in generale con i segnali di fragilità che il progetto postbellico ha mostrato dopo il fallimento costituzionale e la Brexit.

Se ci fossero dubbi residui, vi invito a leggere i volumi di Santo Peli, Filippo Focardi, Chiara Colombini, per indicare tre generazioni di studiosi e amici, che più e meglio di me possono chiarire questi concetti.

Ma anche a riprendere in mano i grandi capolavori della letteratura resistenziale, da Calvino a Meneghello a Fenoglio, o i grandi film del cinema postbellico; opere che hanno reso con efficacia i dubbi e le incertezze del vissuto partigiano, restituendocene dunque l’umanità.

O persino a immergervi nella più recente declinazione pop della Resistenza, che oggi è narrata con linguaggi nuovi e coinvolgenti come la canzone, il fumetto, il gioco.

In questo anno che ci introduce nell’Ottantesimo anniversario della Resistenza, impegniamoci perché il 25 aprile sia festa di tutti; e continui a guardare al futuro e non solo al passato.

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