L’incertezza e l’ossessione identitaria

Pietro Del Soldà

Siamo in mare aperto. Le onde arrivano alte e irregolari, c’impediscono di scorgere la linea dell’orizzonte e di anticipare quello che verrà. Il presente in cui siamo immersi, oggi più che mai di fronte all’imprevedibile evolversi della pandemia Covid-19 e delle sue conseguenze economiche e sociali, sfugge al nostro sguardo, non risplende «chiaro e distinto» come il cogito ergo sum di Cartesio ma, un po’ come il sapere di Socrate che non si lascia mai afferrare, «oscilla come il sogno».

È il tempo della complessità: disponiamo di una quantità inaudita di informazioni, è vero, ma è vero anche che oggi come mai prima nella storia ogni cosa è interconnessa, la nostra vita è condizionata da una trama fitta di relazioni così estesa e ramificata da risultarci incontrollabile, illeggibile. La materia di cui sembra fatto il nostro mondo, pur così ricco di conoscenze, è l’incertezza*. Certo si può obiettare che questa non è una novità del secolo digitale: le cose sono sempre andate così e l’interconnessione, l’imprevedibilità e l’incontrollabilità degli eventi esiste dagli albori della storia. La differenza è che oggi sembrano meno efficaci i filtri culturali e religiosi che, nel passato, riuscivano a ridurre la complessità e talvolta a camuffare l’abisso su cui la vita umana necessariamente si fonda.

Oggi sappiamo di più e dunque vediamo chiaramente che l’incertezza è insuperabile. Tuttavia, non riusciamo a sradicare da noi il desiderio di opporvi resistenza, di azzerare l’incomprensibile e l’imprevedibile e di agguantare almeno un po’ di sicurezza, liberandoci così dall’emozione che invece domina e ci fa soffrire quando la sicurezza proprio non c’è: la paura.

Questo desiderio nasce da un errore di prospettiva che illude di poter rendere assoluto ciò che è e sarà sempre relativo: da quest’errore derivano molte azioni individuali o collettive, progetti, forme politiche (è il caso dei nuovi sovranismi e autoritarismi del XXI secolo), codici morali (i cosiddetti «valori non negoziabili»), abitudini dure a morire (quel fare sempre le stesse cose senza mai aprirsi, per pigrizia o mancanza di coraggio, a incontri ed esperienze nuove), relazioni squilibrate e possessive (basate sul progetto di eliminare l’ignoto in chi ci sta vicino, in primo luogo il partner, con esiti spesso violenti): questi e molti altri comportamenti umani si fondano sul desiderio impossibile di eliminare l’incertezza.

È sempre andata così, ma oggi tutto questo si fa più evidente. La crescita impetuosa delle nostre conoscenze ci consegna infatti una inquietante verità: più sappiamo e più scopriamo di non sapere, più avanza la ricerca in ogni campo e più c’imbattiamo nell’abisso indeterminabile sul quale poggiamo (le scoperte nel campo della fisica dell’infinitamente piccolo ne sono un chiaro esempio) e dal quale dipende ogni fragile forma umana, ogni sapere, ogni realtà politica, ogni conquista individuale, ogni relazione personale, ogni progetto. Ogni equilibrio, nella vita privata e in quella pubblica, sembra sempre più fragile e di breve durata: i partiti politici si liquefanno, gli strumenti del diritto e le forme istituzionali seguono a fatica i mutamenti in atto. Talvolta paiono proprio arrancare, come dimostra ad esempio la debolezza dello stato-nazione di fronte alle potenze economiche del mercato globale, forti, velocissime e slegate da ogni vincolo territoriale.

Neppure possiamo aggrapparci a tradizioni e abitudini consolidate che una volta erano lì a rassicurarci su qual era il nostro posto nel mondo, su come dovevamo comportarci e su che cosa era il caso di sperare o di temere dal futuro. Quelle tradizioni e abitudini, infatti, non funzionano più o fanno meno presa sulla realtà. Chi tenta di riesumarle e di applicarle, come maschere sul caos, alle trasformazioni in corso nella politica e nell’economia, ma ancor più nella vita delle persone, riesce forse a sedurre molti elettori, ma in realtà mente: mente a se stesso e soprattutto mente a chi spera di trovare riparo e conforto in quelle proposte reazionarie.

È in questo scenario che si origina quella che a me pare la vera ossessione del nostro tempo: il bisogno di identità. Sul piano individuale ciascuno di noi, chi più chi meno, tende a inseguire e a investire sull’identità personale in chiave narcisistica e a dipendere con ansia dal riconoscimento e dal giudizio altrui. Nel lavoro, nello studio, nella vita sentimentale, nei rapporti familiari, ovunque aspiriamo a ottenere dagli altri la conferma della nostra versione «al meglio», beautified (app per smartphone come Beautify o simili, che consentono di ritoccare il nostro volto fino a falsificarlo, appianando i segni del tempo e altre imperfezioni, non sono eccezioni: sono al contrario esempi di una tendenza generale che caratterizza ormai gran parte della nostra vita, online e offline).

Vogliamo immedesimarci in questa sorta di ritratto dell’Io da esporre, mettendolo davanti al nostro volto, eliminando o riducendo al minimo i dettagli che stonano. È un obiettivo che non abbandoniamo quasi mai, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Quando viviamo un’esperienza, bella o brutta che sia, un nuovo incontro, un episodio banale, subito lo riconduciamo al faticoso lavoro di costruzione dell’identità personale che è un cantiere sempre aperto, con il rischio concreto di subordinarvi tutto quello che facciamo, fino al punto di perderci il piacere che potremmo invece ricavare dalle cose della vita per quel che sono, a prescindere dal loro tornaconto narcisistico.

Ma la stessa ansia, la stessa tensione al riconoscimento, al giudizio e all’affermazione di sé si estende oltre i confini del singolo, coinvolgendo per intero le società trasformate dalla globalizzazione: il confronto con stili di vita e modi di pensare diversi dai nostri, aumentato a dismisura nei primi anni di questo secolo grazie alla rivoluzione digitale e ai flussi migratori, ha avuto l’effetto di rafforzare in molti di noi l’attaccamento alle parole, ai riti e ai costumi della terra in cui siamo nati o ad altri simboli collettivi di appartenenza. I movimenti identitari, ormai protagonisti indiscussi della politica contemporanea, devono il proprio successo al fatto che intercettano quell’ansia e riescono a sedarla – o, meglio, promettono di farlo – con parole d’ordine di grande efficacia. Adattandosi ai diversi contesti grazie a strategie di comunicazione mirate, la propaganda identitaria in Europa, negli Usa, in India, in Brasile, in Russia, nelle Filippine e in altre zone del pianeta, all’insegna dell’America first!, British first!, Prima gli italiani! e così via, aumenta lo smarrimento e poi offre riparo, enfatizza la malattia e propone la terapia, alimenta la rabbia e la frustrazione e costruisce il capro espiatorio perfetto su cui sfogarle. I leader sovranisti che fioriscono nelle varie zone del mondo dicono cose diverse, plasmandole in base alla situazione economica, sociale e culturale del paese in cui si trovano. Ma come fossero un sol uomo, gridano all’invasione degli stranieri e al pericolo della sostituzione etnica, e spacciano per soluzione i muri da tirare su e le frontiere da sigillare.

Ci troviamo quindi stretti tra due fuochi. Da un lato, subiamo la pressione esercitata dal bisogno di affermare un’identità personale forte, performativa, competitiva, degna di ammirazione: siamo sudditi di una tirannia esercitata da quel ritratto dell’Io che ritocchiamo e modelliamo ogni giorno, sul web e nella vita reale, cercando di filtrarlo, ripulirlo, correggerlo con cura come se dal suo successo (ma in quale gara?) dipendesse per intero la nostra felicità. Dall’altro lato c’è l’identità collettiva, sociale, quel Noi che assume spesso i caratteri della nazione, la cui sovranità è minacciata da nuovi poteri forti, dall’establishment, o dai flussi migratori in arrivo dal Sud del mondo.

Sono due piani molto diversi, certo, accomunati però dall’ansia e dal disagio che l’Io e il Noi così intesi dovrebbero arginare, e che invece contribuiscono ad accrescere. Tra i due piani, però, c’è anche un altro comune denominatore. In entrambi i casi ciò che conta sono i tratti esteriori più evidenti, quelli che, per l’appunto, si vedono e ci rendono chiaramente simili ad alcuni e diversi da altri. Sia nell’identità personale che in quella di gruppo si riscontra quindi una prevalenza dell’esteriorità, della differenza immediata, che unisce i simili e li contrappone ai diversi. Gli altri, intesi come singoli e come gruppi, sono relegati dalla logica identitaria in ruoli prefissati e classificati ora come avversari nella competizione narcisistica, ora come spettatori delle nostre performance individuali, ora respinti in quanto diversi che minacciano di contagiare la nostra sicurezza, ora ben accetti ma solo perché riconosciuti come simili, membri di una comunità esclusiva e omogenea, al fine di costruire insieme muri e barriere e di mantenerci più sicuri.

Di fronte a questa prevalenza dell’esteriorità, una grande lezione preziosa oggi come al tempo in cui Platone la scrisse, viene dal Socrate protagonista di quel piccolo e formidabile dialogo del fondatore dell’Accademia, il Liside, in cui il suo grande maestro cerca di definire cosa mai sia l’amicizia.

I philoi, riconosce a un certo punto Socrate dialogando con i giovanissimi amici Liside e Menesseno in una palestra di Atene (i due adolescenti si professano grandi amici ma non sanno proprio dire in che cosa consista il loro legame), non sono tra loro simili. La cosa sorprende tutti i presenti, e in fondo anche noi: la somiglianza sembra infatti la chiave più efficace per descrivere il legame di amicizia, a sua volta decisivo per lo sviluppo della persona e per la vita della polis. E invece no: gli amici, spiega Socrate, non sono persone tra loro simili.

Certo, è indubbio che le caratteristiche oggettive di ciascuno (età, ceto sociale, aspetto fisico, religione professata, lingua, paese di provenienza…) condizionino i rapporti che via via si costruiscono. Ma Socrate ci invita a rimuoverli dal piedistallo, a relativizzarne l’importanza. L’amico è tale non perché mi somiglia, bensì, al contrario, «perché egli ha ciò che io non ho»: il sentimento che ci unisce, consentendoci di realizzare davvero noi stessi e le differenze che incarniamo, si alimenta di un’attraente diversità che non cessa di stimolarci a condividere le cose più preziose e a percorrere insieme alcuni tratti della nostra vita.

Oggi, per noi, le parole di Socrate risuonano come un colpo decisivo a quell’impalcatura identitaria, fondata sulla somiglianza e sull’esteriorità, eretta per difenderci dall’incertezza che dilaga. Caduta l’impalcatura saremo forme più nudi e vulnerabili di fronte al mondo imprevedibili, come lo era Socrate che infatti fece una brutta fine. Ma saremo anche, finalmente, nelle condizioni di entrare davvero, insieme agli amici e oltre l’inganno delle identità, in contatto con noi stessi.

* Secondo il 53° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2019 del CENSIS, l’incertezza è lo stato d’animo con cui il 69% degli italiani guarda al futuro, mentre il 17% è pessimista e solo il 14% si dice ottimista.

Pietro Del Soldà ha dedicato un libro a questo tema, Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, Venezia 2020).

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