Sapere nudo o dell’ignoranza sui virus

Pietro Greco

È passato quasi un anno da quando è scoppiata la pandemia COVID-19 causata dal virus SARS-CoV-2 e ancora si sostiene che si è trattato di un evento improvviso, imprevisto e imprevedibile, per questo ci ha colto tutti di sorpresa.

E invece no. Non si è trattato di un fenomeno improvviso, imprevisto e imprevedibile, al contrario la nuova pandemia era stata da tempo prevista e annunciata dalla comunità scientifica. Al contrario, sono più di cinquant’anni che abbiamo un’enorme coscienza che sarebbe accaduto.

Non erano ancora iniziati gli anni ’70 dello scorso secolo – era il 1969, per la precisione –, quando il surgeon general William H. Stewart, il responsabile scientifico della più grande struttura sanitaria del mondo, il Department of Health degli Stati Uniti d’America, annunciava trionfante davanti al Congresso plaudente che l’uomo stava ormai per «chiudere il capitolo delle malattie infettive». E l’annuncio non era davvero privo di fondamenta.

Eravamo ormai certi che non ci sarebbe stata una nuova spagnola, la pandemia di influenza che tra il 1918 e il 1920 uccise nel mondo decine di milioni di persone (forse cento milioni, secondo alcune stime).

La vita media era vistosamente aumentata in tutto il pianeta. Le morti per malattie infettive erano diminuite drasticamente. Antiche patologie, come la tubercolosi, sembravano eradicate almeno in Occidente. Altre, come il vaiolo, che da solo in passato aveva causato un miliardo di morti, lo erano effettivamente e dappertutto (sarà ufficialmente annunciata la prima e totale sconfitta di una malattia infettiva nel 1980).

I medici disponevano di una gamma sempre più ampia ed efficace di antibiotici, antivirali e vaccini. Di fronte a queste armi, batteri e virus, i principali agenti infettivi, sembravano in ritirata, se non addirittura in rotta. Negli Stati Uniti i morti annuali per malattie infettive erano passati dai 797 ogni 100.000 abitanti del 1900 ai 36 ogni 100.000 abitanti del 1980: una diminuzione del 95,5%. Grazie ai soli antibiotici, i nuovi farmaci efficaci contro i batteri (ma non contro i virus), tra il 1938 e il 1952 le morti per malattie infettive erano diminuite al ritmo velocissimo dell’8% annuo. Lo stesso era successo, qualche anno dopo, in Europa.

Poi c’erano stati gli altri successi farmacologici, con la messa a punto di antivirali e di molti vaccini. C’era, ormai, la possibilità di realizzare campagne estese di immunizzazione e, quindi, di prevenzione contro infezioni sia di origine batterica (difterite, tetano, pneumococco, meningococco) che contro malattie di origine virale (febbre gialla, influenza, poliomielite, morbillo, parotite, epatiti A e B). Cosa avrebbe mai potuto impedire che il Quarto cavaliere dell’Apocalisse ormai in rotta evidente fosse definitivamente sconfitto con la completa eradicazione delle infezioni più pericolose?

La messa a punto di vaccini efficaci nella prevenzione di moltissime malattie virali ha alimentato, non senza fondamento, l’ottimismo.

Eppure, ancora all’inizio degli anni ’90, le tre principali cause di malattia al mondo erano tutte di origine infettiva: polmonite e sindromi respiratorie, dissenteria, malattie perinatali. Il fatto è che il Quarto cavaliere aveva sì, abbandonato i paesi del Primo Mondo, ma scarrozzava (e scarrozza) ancora nel Terzo Mondo. Tuttavia in prospettiva sembrava proprio che molto presto sarebbe stato costretto al ritiro anche dalle zone più povere del pianeta. Tutte le proiezioni dicevano che entro quest’anno, il 2020, le tre principali cause di morte al mondo sarebbero diventate le patologie cardiovascolari, le sindromi depressive e gli incidenti stradali.

Oggi sappiamo che le principali cause di morte nel mondo sono, effettivamente, le malattie cardiovascolari, seguite dal cancro e, al terzo posto, dalle malattie infettive. Che però non sono state sgominate. Anzi, uccidono ancora ogni anno oltre 7 milioni di persone: sono così responsabili di oltre il 12% delle morti.

Fin dagli anni ’80 era tuttavia evidente che qualcosa non stava funzionando nella battaglia contro il Quarto cavaliere dell’Apocalisse. E la comunità scientifica lo ha rilevato subito. Ecco cosa scriveva nel 1988 il premio Nobel per la medicina Joshua Lederberg, guardando alle malattie infettive con l’occhio darwiniano del biologo evoluzionista.

«Il progresso delle scienze mediche nel corso dell’ultimo secolo ha oscurato la continua vulnerabilità della specie umana alla infezione su larga scala. Noi siamo incapaci di riconoscere che la nostra relazione con i microbi rappresenta un processo evolutivo ininterrotto, lontano dall’equilibrio, e non possiamo dare per scontati i prossimi esiti evolutivi, non sapendo se risulteranno ottimali secondo la nostra prospettiva o secondo la prospettiva dei nostri parassiti. Abbiamo un ragionevole margine di controllo sugli intrusi di carattere batterico; trascuriamo in modo grossolano i parassiti protozoici che colpiscono principalmente il terzo mondo; siamo in uno stato di pericolosa ignoranza circa la modalità con cui far fronte ai virus».

Parole profetiche. Parole inutili.

Ecco un breve elenco delle epidemie nell’ultimo mezzo secolo:

1968 Pandemia da virus dell’influenza detta di Hong-Kong.
1976 Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), epidemia di Ebola.
Anni ’80 Emerge la pandemia da HIV che causa l’AIDS. Il virus è attivo però dagli anni ’60.
1996 Variante della Creutzfeldt–Jakob, la encefalopatia spongiforme bovina più nota come sindrome della “mucca pazza”.
2002 SARS (Severe acute respiratory syndrome), l’epidemia da coronavirus che vide la morte dei un medico italiano che ebbe un comportamento da eroe, Carlo Urbani.
2003 Influenza aviaria, causata dal virus H5N1.
2009 Pandemia da virus influenzale H1N1/09, nota come influenza suina.
2013 Pandemia di Ebola.
2015 Pandemia da Zika virus.
2019 Pandemia da coronavirus SARS-Cov-2.

Perché, dunque, dopo tanti previsioni e tante concrete occorrenze SARS-CoV-2 ci ha trovato ancora del tutto impreparati?

Perché? Perché dopo la grande illusione questa drammatica disillusione? Perché dopo aver salutato la sconfitta del Quarto Cavaliere, ce lo ritroviamo di fronte più minaccioso che mai?

Covid-2019 – come viene chiamata la malattia causata dal coronavirus SARS-CoV-2 – sta causando molti lutti, ma è praticamente certo che non sarà l’angelo sterminatore che infierirà sull’umanità come la peste del Trecento o l’influenza del 1918.

E tuttavia la comunità scientifica e il banale buon senso insistono: facciamo tesoro di quest’ennesimo tragico episodio per attrezzarci contro la prossima, grande pandemia che, proprio come quelle di un passato che pensavamo passato per sempre, colpirà decine di milioni di persone in tutto il mondo, uccidendone un numero difficile da calcolare, ma probabilmente enorme.

Perché? Perché dopo la grande illusione questa drammatica disillusione? Perché dopo averne salutato la sconfitta, il Quarto Cavaliere ce lo ritroviamo di fronte più minaccioso che mai?

Per tre motivi, come spiegava già venti anni fa, prima che scoppiasse la SARS, Tony McMichael, epidemiologo inglese della London School of Hygiene and Tropical Disease. Perché i virus e i batteri, gli agenti infettivi, evolvono. Perché l’ambiente evolve. E perché l’uomo stesso evolve, nei suoi stili di vita molto più velocemente che nella sua biologia. È questa triplice evoluzione, anzi è questa coevoluzione, che ci ha precipitato in pochi anni in una nuova fase del nostro antico e mutevole rapporto con gli agenti infettivi.

Insomma, è proprio tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del XX secolo, proprio mentre il surgeon general William H. Stewart dava voce a un ottimismo diffuso, e non certo infondato, anche la medicina sul campo scopre il concetto, biologico e culturale, di evoluzione. Ed è a questa scoperta (che in realtà è un nuovo approccio culturale, un cambio di occhiali) che ancora oggi dobbiamo guardare per cercare di capire le cause remote del rischio associato a quelle che l’Organizzazione mondiale di sanità (Oms) definiva già nel 2002 «emerging and re-emerging infectious diseases», le malattie infettive emergenti e riemergenti.

Resta il problema: perché pur avendone ormai coscienza del rischio – anzi, pur avendone ormai un’enorme coscienza – ci siamo lasciati sorprendere? Cos’è che non ha funzionato? Cosa dobbiamo fare, da ora in poi, perché la pandemia prossima ventura non ci colga impreparati? Come impedire che il nostro sapere resti un sapere nudo, impotente?

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