Cosa è rimasto degli anni Ottanta?

La tv che ha cambiato l’Italia

Sebastiano Pucciarelli

Sono due le frasi più ricorrenti quando si traccia un bilancio degli Anni Ottanta, e forse non è un caso se entrambe vengono dalle canzoni. A Lector in fabula di Conversano abbiamo provato a rispondere a Raf, che già nel 1989 si domandava Cosa resterà degli anni ’80, e per farlo abbiamo guardato nello specchio deformante della televisione, che proprio in quel decennio si è fatta interprete e artefice della mutazione antropologica degli italiani.

Coi colleghi di Tv Talk (programma di Rai 3 che da oltre vent’anni cerca di decifrare il Paese attraverso la sua televisione) e col direttore dei TG Norba (che una tv indipendente contribuì a fondarla nel 1976) abbiamo ripercorso l’epopea della tv commerciale, nata dalle ceneri di radio e tv libere che però, ossimoro curioso, ben presto avremmo imparato a chiamare private.

Lo storico della tv Giorgio Simonelli ha fornito la prima chiave interpretativa: con la carica di Canale 5 e delle altre nuove emittenti, la televisione si è fatta smisurata. Fuori misura perché la neotelevisione cancella i toni prudenti e moderati che avevano caratterizzato il servizio pubblico fino a quel momento, ma fuori misura anche proprio in senso quantitativo, perché i canali si moltiplicano nello spazio e nel tempo. Nello spazio: le reti locali spuntano ovunque da nord a sud; nel tempo: i palinsesti invadono fasce orarie mai coperte dalla Rai, come la prima mattina e la notte fonda.

Già, il palinsesto, la vera arma segreta delle nuove tv commerciali, che il Cavaliere (col mago degli incastri Freccero) sfrutterà come vero e proprio ariete per penetrare il nuovo mercato e le abitudini degli Italiani. Mi ha sorpreso rileggere le guide televisive di quegli anni: il menu di Canale 5, ma anche di Italia 1 e Rete 4 (ben presto acquisite da Fininvest), era composto solo in minima parte da quiz e show comico-musicali autoprodotti, perché all’80% offriva film, cartoni animati, soap opera e soprattutto telefilm americani, perfetti per le interruzioni pubblicitarie e per inchiodare il pubblico con appuntamenti fissi e seriali. Del resto, le tv private non potevano contare sulla diretta, che arriverà solo nel 1991.

Il fondatore era andato negli USA a studiare le tv commerciali americane e, come ricorda Luca Barra nel suo esauriente La programmazione televisiva, pare che il presidente della CBS, Paley gli avesse spiegato: «Tu avrai una vera televisione quando la gente, vedendo il programma in onda, capisce che ora è».

Per diventare quell’oggetto pop sfavillante e irresistibile in cui siamo stati immersi, il Biscione aveva importato dagli USA i contenuti più accattivanti ma anche la confezione, con un tripudio di sigle colorate, promo seducenti e jingle-tormentoni, in perfetta sintonia con gli spot pubblicitari che affollavano il palinsesto.

Ma la regista Giulia Sodi ci ha ricordato un altro cambio di paradigma decisivo: tv locali come la lombarda Antenna 3, ben presto copiate dal gruppo Fininvest, iniziarono a utilizzare telecamere più leggere, e a girarle verso la gente comune, chiamata a giocare, raccontarsi, esibirsi. Non più solo gli esperti, i professionisti dello spettacolo, del giornalismo e della politica, ora anche il vicino di casa stravagante e la signora disinibita potevano ambire alla loro piccola gloria catodica. Una tendenza che, nei quattro decenni successivi, non ha fatto che crescere, con l’avvento di reality e talent show prima, di smartphone e social network poi.

Un fenomeno che ha avuto anche meriti oggettivi, portando il racconto televisivo a farsi più partecipato e più attento al territorio. Lo conferma il direttore dei telegiornali di Telenorba, Enzo Magistà, che da oltre trent’anni conduce il primo TG italiano del mattino (e, suggerisce il moderatore Oscar Buonamano, unico in grado spostare voti sul territorio). Come i colleghi Fininvest, anche quelli di Telenorba andarono a fare stage in America alla CNN (gli americani facevano colazione col notiziario: ecco l’idea di un TG pugliese alle 7:30), ma poi, negli studi di Conversano, lanciavano talenti destinati alla ribalta nazionale: l’amatissimo duo comico Toti e Tata (Emilio Solfrizzi e Antonio Stornaiolo), l’autore e regista Gennaro Nunziante, che proprio in quei corridoi avrebbe incontrato un giovanissimo studente del vicino liceo scientifico, un certo Luca Medici, che ancora non aveva indossato la maschera di Checco Zalone.

Un amico scrittore che se ne è andato troppo presto, il torinese Luca Rastello, diceva che la sua generazione, quella dei movimenti creativi e politici del 1977, era riuscita a intravedere il futuro, ma aveva scambiato l’incubo per sogno: voleva una vita liberata dal lavoro, e di lì a poco sarebbe stato il lavoro a liberarsi di noi, diventando precario; sognava un corpo guidato dal desiderio, più che dalle necessità (ri)produttive, ma avrebbe trionfato il corpo come merce ed ostentazione; sperimentava linguaggi innovativi che sfidavano il senso comune, per poi ritrovarli svuotati e plastificati nella pubblicità.

Ecco, un bilancio degli anni Ottanta, e della tv che li ha incarnati così intensamente, non può prescindere dalla consapevolezza di quella mutazione irreversibile e definitiva.

Perché forse ha ragione l’altra canzone che racchiude il nostro rapporto con quell’epoca, in qualche modo la risposta di Manuel Agnelli e dei suoi Afterhours alla domanda di Raf, «Non si esce vivi dagli anni ’80».

Leggi anche