Gli occhi di chi non può vedere: Letizia Battaglia

Sergio Baraldi

La morte di Letizia Battaglia, la fotografa de L’Ora di Palermo, e conosciuta come la fotografa della mafia, è un lutto per il giornalismo, che spinge a riflettere non solo sulla figura di questa donna fuori dal comune, ma anche sul suo lavoro. Che non si limitò alla mafia e ai grandi delitti che insanguinarono Palermo.

Fu lei che fotografò l’incontro tra gli esattori Salvo e Giulio Andreotti all’hotel Zagarella, immagini che poi furono acquisite nel processo contro il leader democristiano. E sua è la fotografia del presidente Sergio Mattarella mentre abbraccia il fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia, ucciso poco prima dalla mafia. O la foto rubata al boss Bagarella, evento impensabile nella Sicilia di molti decenni fa. Ma Letizia, con la quale anche io ho lavorato quando sono stato cronista de L’Ora, nella sua vita si è occupata soprattutto della gente comune della città: le donne e le bambine dei quartieri degradati, le persone semplici, che avevano in comune un destino infelice, imposto dalla violenza delle cose o della mafia. Erano soprattutto le vittime le protagoniste delle sue foto. E in più occasioni a Letizia è riuscito ciò che accade solo ai grandi fotografi: la Storia presa in uno scatto memorabile.

Lei stessa ha raccontato il suo colloquio con un altro grande fotografo, Josef Koudelka, famoso per le sue immagini della primavera di Praga, diventato suo amico. Letizia ha ricordato di avergli detto: «Mi sa tanto che io la vita l’afferro e tu la controlli».

Credo sia difficile descrivere questa donna sorridente, simpatica, dalla vita tumultuosa, ma vera come si autodefiniva, meglio di quanto abbia fatto lei stessa. Lei raccontava per immagini. E le immagini sono impulso e decisione. Parola di Letizia.

Mondo e frammento uniti dal racconto fotografico
Nonostante il suo proverbiale sorriso, Letizia Battaglia ha avuto una vita difficile. A dieci anni fu vittima di violenze, come lei stessa ha raccontato, una cicatrice che si è portata dietro per tutta la vita. Ruppe un matrimonio fatto per amore, ma che poi aveva cominciato a vivere come una prigione da cui fuggire. Ha lavorato e vissuto anche a Milano prima di tornare a Palermo, la città nella quale si riconosceva, che amava e della quale è poi diventata assessore con il sindaco Leoluca Orlando.

Letizia aveva un talento raro: le sue foto riuscivano a unire mondo e frammento attraverso il racconto fotografico. La sua prima fotografia per L’Ora, una prostituta coinvolta nell’uccisione di un’altra donna, restituisce un universo umano, civile, simbolico sconosciuto a molti. Per comprendere il talento di Letizia dobbiamo tenere presente che nella società contemporanea le identità differenti, la pluralizzazione delle appartenenze, un tessuto sociale sempre più differenziato e frastagliato, ci pongono di fronte a una frammentazione enigmatica. La cultura, attraverso le cui lenti guardiamo il mondo, cede il posto a una moltiplicazione di culture, che trasformano il rapporto tra soggetto e realtà. Se i riferimenti culturali si polverizzano, ciascuno può sganciarsi dalle appartenenze tradizionali e costituire la propria identità in modo più autonomo di prima.

La società contemporanea sembra dominata dal frammento. Si sono indeboliti i riferimenti che consentono di costruire criteri condivisi. Si recidono sempre più spesso i collegamenti tra visioni particolari e sintesi generali. Come ha scritto il sociologo Alfred Schutz: «La coesistenza di diversi piani simbolici, i quali sono scarsamente correlati l’uno all’altro, se pure lo sono, è il tratto specifico della nostra situazione storica». Nella società del frammento la parte deve restare una parte, senza potere essere inserita in una visione più generale. Il frammento è così il segno di una rottura dell’unità. Ma è questa tendenza che Letizia Battaglia è riuscita ad invertire con la sua arte. E lo ha fatto attraverso la narrazione fotografica, il linguaggio giornalistico per immagini. Lei ha scelto il frammento. Lo ha isolato. Lo ha enfatizzato. Poi con uno scatto è riuscita a trasformarlo in un mondo. Un mondo che noi, guardandolo, sentiamo essere parte di noi. Ma è un mondo che fa parte anche e soprattutto di lei. Letizia lo ha spiegato in una intervista: «Alla fine è il mio mondo che accoglie o fissa gli altri mondi. Mi innamoro non del mio sguardo, ma di ciò che il mio sguardo in quel momento accoglie». Così Letizia riusciva spesso a compiere un piccolo prodigio: trasformare il frammento nel nostro mondo.

Gli occhi di una donna per chi non può vedere

Il talento di Letizia, quindi, sembra quello di riuscire a essere gli occhi di chi non può vedere. Perché non è lì. Ma attraverso quale nesso la fotografa riusciva a unire frammento e mondo? Quale relazione instaurava tra istante e tempo nel racconto fotografico?

Qui occorre forse mettere in evidenza la lettura femminile della realtà che ci circonda. Letizia vede l’ingiustizia e il dolore, affiora la sua interpretazione civile e politica della realtà che abita, ma il nesso privilegiato attraverso il quale sembra dargli forma è il pathos. Lei stessa ha ammesso: «C’è il cuore e la testa».

Se si guarda la foto del futuro presidente Mattarella che abbraccia il fratello morente colpito dai killer della mafia, ci rendiamo conto che è il ritratto della sofferenza di una moderna Pietà al maschile. E insieme è la rappresentazione di un mondo e di un potere feroce e ingiusto. È questo sentimento che innanzi tutto coinvolge. Una foto ricolma di partecipazione al dolore che una donna più di un uomo forse riesce a trasmettere.

Questa relazione patemica, questa capacità di porsi nella posizione dell’altro, l’empatia, le consentiva di entrare nella foto, restando invisibile. Letizia si pone dentro la foto con l’istinto dell’artista di costruire un senso. La figura di un fratello che sorregge l’altro ucciso diventa immediatamente una ferita vissuta e insieme la denuncia universale di un potere criminale.

Il significato è: essere lì.

Vivere la tragedia. Condividere il destino di dolore dell’altro, fosse Mattarella o le donne o le persone semplici dei quartieri degradati di Palermo. Il senso di una responsabilità morale e non solo sociale per chi è vittima. È questo passaggio che Letizia riesce a compiere con le sue fotografie più intense: la differenza del frammento non genera indifferenza e incomunicabilità come avviene spesso nella società di oggi, al contrario crea partecipazione e immedesimazione nell’altro. Sono gli occhi di una donna, della sua forza patemica, per chi non può vedere. Ma può vedere attraverso di lei. E vedere è ri-vivere il momento.

La verità del giornalismo
Se il giornalismo è l’istituzione a cui la società ha delegato il compito di ricostruire la realtà, dandole forma e mettendo ordine nelle cose quotidiane, allora il lavoro di Letizia Battaglia non è solo giornalismo visivo. Parla della verità del giornalismo. I giornalisti non sono soltanto i testimoni degli eventi, sono parte del mondo che osservano. A loro sarebbe demandata la delicata, e a volte rischiosa, funzione di certificare ciò che accade. Ma i fatti sono anche il risultato di una negoziazione tra i diversi attori sociali per stabilirne la rilevanza.

La storia professionale di Letizia ci avverte che il tempo in cui i custodi dell’informazione stabilivano cosa è di interesse pubblico, è al tramonto (il paradigma trasmissivo). Invece oggi è l’interazione che si stabilisce tra diversi attori (compresi gli algoritmi) che costruisce il contesto di significazione in cui le informazioni sono inserite. E dà senso. Letizia con le sue fotografie coinvolgenti ha sempre seguito questo percorso: fissava un mondo con cui lei stabiliva una connessione composta di emozioni e ragioni e in cui il protagonista, insieme a coloro che poi guardano l’immagine, sono chiamati a tessere l’interpretazione. La foto non è un testo finito e definito, ma aperto, plurale, in costante evoluzione. È frammento, come la nostra vita. Ma che ci restituisce un mondo.

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