Il Quirinale è il messaggio

Sergio Baraldi

La rinuncia di Berlusconi apre i giochi tra il discorso suprematista del centro destra e quello rassicurativo del centrosinistra. Il Quirinale diventa la rappresentazione di un Paese tra frammentazione e unità, che sembra chiedere fiducia e stabilità.

La fine della autocandidatura di Berlusconi apre la vera corsa al Quirinale, ma la rinuncia del Cavaliere non è detto che sblocchi lo stallo. Da una parte né il centrodestra né il centrosinistra hanno la maggioranza dei voti per una elezione politica del presidente della Repubblica, dall’altra l’unica via percorribile per la scelta del nuovo capo dello Stato sembra un nome condiviso, scelta ostacolata dalla necessità di garantire la continuità del governo e della maggioranza.

Questo doppio binario ha prodotto la democrazia sospesa delle ultime settimane. Anche perché il tema che si pone è inedito dal punto di vista costituzionale: Mario Draghi potrebbe lasciare Palazzo Chigi per trasferirsi al Colle. Per riuscirci (se ci riuscirà) i partiti devono trovare un accordo che non riguardi solo il Quirinale, ma pure governo e prossimo premier. Le emergenze che il Paese sta affrontando, la pandemia e i contraccolpi sulla economia, avevano portato un tecnico a Palazzo Chigi, che è stato vissuto dai partiti come un commissariamento della politica. Ora l’interesse generale del Paese potrebbe spingere i partiti a decidere una sorta di secondo auto-commissariamento. Ma avverrebbe per rispondere alle sfide che il Paese fronteggia, per guardare al bene comune.

Il discorso suprematista del centrodestra
L’esordio però ha mostrato un Parlamento bloccato dalla sua frammentazione e dalle divisioni interne alle coalizioni, che agiva per inerzia. La candidatura fallita di Berlusconi non dovrebbe essere letta solo come l’ambizione di un anziano leader politico che voleva chiudere la carriera al Quirinale come padre della patria. Il suo significato sembra un altro: il centro-destra si sentiva in grado di imporre un suo presidente, attuando una netta inversione rispetto al passato, quando gli eletti erano espressione del centrosinistra. Berlusconi ha creduto che ci fossero le condizioni per una prova di forza.

L’ambizione, quindi, era diventare una tendenza politica dominante, mainstream, che possa prevalere sui poteri e sulla classe dirigente nazionale che non sempre hanno riconosciuto la legittimità del centrodestra ad aspirare alla massima carica istituzionale. È questa conventio ad excludendum che la candidatura di Berlusconi voleva infrangere. Per raggiungere l’obiettivo, infatti, il leader di Forza Italia non ha scelto di muoversi come riferimento di una rappresentanza il più possibile generale del Paese, ma come esponente di una forza in grado di decidere il nome. Berlusconi ha agito su due fronti: all’interno e all’esterno del Palazzo. Ha messo in campo il discutibile reclutamento di parlamentari con l’aiuto del telefonista Vittorio Sgarbi e ha provato a suscitare un movimento di opinione che lo sostenesse, esercitando una pressione dalla piazza sui parlamentari.

All’inizio i media hanno favorito questo recupero di centralità della scena. La notizia della sua discesa in campo è stata subito trattata come la notizia del giorno. È stata inquadrata all’interno dello schema sensazionalistico: personalizzazione, drammatizzazione, spettacolarizzazione sono stati gli ingredienti rituali del ritorno del vecchio leader, interpretato dai giornali progressisti come uno scandalo e dai conservatori come una rivincita. In entrambi i casi, la media logic ha utilizzato un frame interpretativo etico, oscurando così la posta politica: il tentativo del centro-destra di legittimarsi come forza dominante, capace di segnare il passaggio dall’egemonia del Pd (ottenuta senza una vera vittoria alle elezioni) a un riequilibrio in cui il centrodestra assuma il ruolo saliente di kingmaker in virtù dei passati successi elettorali. Non è stato colto il discorso suprematista di Berlusconi, vale a dire l’ideologia sottesa che puntava ad affermare la superiorità politica e identitaria della destra. Del resto, la pubblicità sui giornali descriveva Berlusconi come «l’italiano più competente in politica internazionale, ascoltato e apprezzato, autorevole e umano».

Non è detto che il discorso cada con il suo ritiro, potrebbe essere rilanciato soprattutto da Salvini per fermare Draghi. La narrazione del leader della Lega e della Meloni racconta il diritto del centrodestra di fare la proposta, perché avrebbe la «maggioranza dei grandi elettori». Il centrosinistra è rimasto ingabbiato in questa narrazione. Ma se si fanno i conti la realtà è più complicata: il centrosinistra avrebbe qualche voto in più se si includono anche i riformisti Renzi, Calenda e la Bonino. La versione della «coalizione extra larga», quella che ha eletto Enrico Letta a Siena, avrebbe in partenza un lieve vantaggio. È in minoranza nella versione senza i riformisti. In sostanza, nel Parlamento c’è un sostanziale equilibrio e non si può certificare nessun vero primato anche per le divisioni interne alle coalizioni e ai partiti.

Il potere simbolico del Quirinale
La strategia del leader di Forza Italia è coerente anche con una concezione del presidente meno tradizionale di quanto si potesse supporre. Il modello non sembra l’arbitro: il garante della vita costituzionale, l’uomo per il quale il Paese non è un’arena di conflitti tra fazioni, ma il contesto in cui tutti sono chiamati a operare con responsabilità per il bene comune. Questo è il modello di Mattarella.

Berlusconi sembrava guardare a un modello diverso: il Quirinale come centro di un potere simbolico in grado di riconfigurare il profilo culturale del Paese. L’ambizione berlusconiana era usare il Quirinale per assicurarsi la piena agibilità dello spazio politico in Italia e in Europa. Verrebbe da dire seguendo McLuhan: il Quirinale è il messaggio. Berlusconi ne ha compreso l’importanza simbolica, e paradossalmente l’ha fatta comprendere agli avversari. Il rischio, quindi, non sembra tanto l’instaurarsi di un semi-presidenzialismo di fatto, che ha subito attirato critiche da sinistra.

Il professore Guido Formigoni sulla rivista Il mulino ha richiamato i problemi che sorgerebbero da una riduzione semplificatoria della dialettica democratica e si è chiesto se un semi-presidenzialismo non polarizzerebbe l’intero sistema politico. Ma la presidenzializzazione (l’accentramento sull’esecutivo a danno del legislativo) è una tendenza in atto da tempo sulla spinta di una società sempre più complessa, che porta i cittadini a personalizzare (sull’onda dei media) la guida di città, regioni, nazione. Anche la polarizzazione è un processo che avanza da anni.

La democrazia, non solo in Italia, è in transizione sotto l’urto di forze sociali, economiche, politiche diverse. Oggi il rischio più che una torsione istituzionale sembra piuttosto il possibile schieramento del Quirinale come potere simbolico in grado di influenzare l’auto rappresentazione della società. Già Pertini e Cossiga si sono mossi in questa direzione, utilizzando il potere di esternazione del Presidente. Il Quirinale può offrire voce, immagine a un diverso sistema di credenze, di valori, di aspettative. Può convalidare (o smentire) un’immagine della società. E può legittimarla attraverso una rivendicazione di rappresentanza verso tutti. Questo risultato potrebbe essere ancora più credibile se si riflette sul fatto che il Cavaliere è anche Sua Emittenza, proprietario del polo tv privato più importante e l’uomo che ha cambiato il marketing politico in Italia.

Per capire quanto il tema sia delicato possiamo ricordare le polemiche sulla pandemia a proposito delle vaccinazioni. La destra sul vaccino ha tentato (senza riuscirci) di affermare la supremazia dell’individuo sul bene collettivo della salute pubblica. L’uomo della strada, cioè, non dovrebbe essere sottoposto alla legge, ma la legge sarebbe al servizio dell’uomo della strada. È stata la determinazione di Draghi, sostenuto da Mattarella, coadiuvato dal centrosinistra, che ha fatto passare, sia pure con qualche compromesso, l’idea che la salute pubblica ha la precedenza sulle opinioni (discutibili) di una minoranza che non vuole vaccinarsi. Cosa sarebbe accaduto con un esponente della destra al Quirinale? Forse emergerebbe la sagoma di una democrazia trumpiana, che stabilisce una volta per tutte la rivalutazione dell’individuo come singolo slegato da ogni obbligo, che non sia il suo interesse e le sue singole aspirazioni. Anche rispetto alla salute pubblica. Questo disegno, latente nella mossa di Berlusconi, è naufragato contro i numeri in Parlamento ed è stata messa in crisi dalla concorrenza interna alla coalizione. Salvini e Meloni hanno interessi divergenti rispetto a una rinnovata centralità berlusconiana dalla quale si erano emancipati grazie ai loro successi elettorali e politici. Ma il discorso suprematista non è stato ancora abbandonato e potrebbe contrastare la candidatura di Draghi.

Il discorso resiliente e rassicurativo del centrosinistra
La cristallizzazione della frammentazione è avvenuta anche nel campo progressista. All’inizio Enrico Letta e Giuseppe Conte hanno mostrato al pubblico solo il volto dell’alleanza tra Pd M5S e Leu, in apparenza senza considerare che in Parlamento (e nella società, secondo i sondaggi) è minoritaria rispetto al centrodestra. La divisione con il campo riformista (abitato da partiti piccoli che aspirano ad una rappresentanza maggiore di quanto le rilevazioni li accreditino) sembrava difficilmente superabile. In questo modo, proprio il centrosinistra subiva la narrazione del centrodestra, che afferma appartenere a loro l’onore e l’onere di indicare il presidente dato che avrebbero la maggioranza dei grandi elettori. In questo modo si è sedimentata nell’opinione pubblica l’idea di un centrodestra prevalente prima ancora che la battaglia per il Quirinale avvenisse.

Del resto, Renzi ha reagito alla scomunica arrivata dal Pd e dalla sinistra, riconoscendo che la destra aveva in mano il pallino. È suo interesse cercare di disarticolare l’alleanza tra Pd e Conte e legittimare uno spazio dei riformisti che nel voto per il Comune di Roma avevano ottenuto un risultato insperato: essere diventato il primo partito. Ma la candidatura di Berlusconi, la volatilità dei grillini, lo stallo a cui ha portato la tattica dei primi giorni, ha spinto il centrosinistra a un ripensamento. L’incontro tra Letta e Renzi è stata la prima ammissione che l’alleanza larga non basta: ci vuole l’extra larga. Corollario implicito sembra che l’alleanza di centrosinistra dovrebbe abituarsi a pensare sé stessa come luogo di tradizioni differenti, socialdemocratiche e liberaldemocratiche, senza scomuniche reciproche. Forse Letta pensa a un’alleanza a geometria variabile in cui Pd e M5S formano il nucleo e un secondo cerchio allargato agli altri. Ma sul Quirinale, la linea democratica e quella renziana in parte sembrano convergere.

Un primo nodo strutturale da sciogliere, quindi, sarà la capacità del centrosinistra di riconfigurare sé stesso secondo un’identità plurale attorno al tema del rispetto, senza cadere preda delle divisioni interne. Una seconda questione riguarda la capacità del centrosinistra di condurre il centrodestra alla consapevolezza che nessuno ha i numeri per imporre il proprio candidato. Si potrebbe stipulare un patto che conduca i poli rivali, che poi dovranno competere alle elezioni, alla conclusione della legislatura.

Del resto, le vere sfide per il Paese sono altre: porre sotto controllo la pandemia (quest’anno non si è chiuso nulla), la realizzazione del PNRR con la sua ingente mole di investimenti, mantenere alta la crescita dell’economia che dovrebbe toccare il record del 6,3%, contenere l’inflazione importata per i prodotti energetici. Per questo le quotazioni di Mario Draghi, nonostante il no di Berlusconi, restano alte anche se il quadro si è fatto incerto e vischioso, con candidature che nasceranno e moriranno in poche ore. È la conflittualità tra le coalizioni e dentro le coalizioni che mantiene il suo nome come una garanzia per far progredire il Paese avendo come riferimento l’interesse generale. È difficile immaginare, infatti, che il governo possa continuare a operare se la maggioranza che elegge il presidente è molto diversa da quella che sorregge il governo.

Il centrosinistra sembra avere investito risorse su un discorso di rassicurazione sia verso un Parlamento che teme le elezioni anticipate, sia verso il Paese. Se è vero che le grandi sfide incombono e che hanno acutizzato la domanda di sicurezza dei cittadini, occorre muoversi come «forza tranquilla» che parla a un’audience che domanda stabilità e fiducia. La difesa di Draghi corrisponde a questi bisogni diffusi di rassicurazione. Il dialogo senza preclusioni con il centrodestra è un segnale di attenzione ai timori sulle possibili ricadute negative sull’economia e sul controllo dell’epidemia di un conflitto politico. Il centrosinistra, soprattutto con Letta, non ha risposto al centrodestra sul piano identitario, evitando lo scontro. Ha avviato un discorso resiliente, ma non meno determinato. In questo modo si è spostata l’attenzione dal confronto tra identità alla discussione sulla effettiva praticabilità di una prova di forza. Il centrosinistra sembra collocarsi in una posizione di attesa, che consenta l’eventuale maturazione nel centrodestra di una mediazione. Ma deve a sua volta fare attenzione alle spinte centrifughe di alcune sue componenti, che vogliono puntare su nomi che non consentono una condivisione.

Il Quirinale come rappresentazione del Paese
Il centrosinistra, quindi, sembra aver compreso che deve rispondere allo stato emotivo della società. L’insicurezza non ha solo radici economiche e sociali, deriva anche da uno stato d’ansia per la mancanza di riferimenti, di valori in cui credere. La corsa al Quirinale, in questa prospettiva, si identifica come una rappresentazione del Paese. Può mettere in scena la narrazione di una crisi di sistema oppure il racconto di un Paese unito, impegnato a superare antichi limiti.

Se l’opinione pubblica internazionale oggi guarda all’Italia come a una nazione che ha reagito meglio di altre alla pandemia e che sta mettendo a segno una crescita economica tra le più robuste, se i mercati internazionali scrutano il Quirinale, se i più importati quotidiani del mondo seguono le elezioni, è perché l’Italia ha smentito i pronostici più infausti. L’unità nazionale sembra al momento la cornice dalla quale non si può prescindere, che forse corrisponde alla ricerca di fiducia e di stabilità del Paese. Non sprecare l’occasione significa difendere il futuro. Il Quirinale è il messaggio. Perché restituirà a noi stessi e al mondo la nuova rappresentazione dell’Italia, del chi siamo all’epoca del virus, tra frammentazione e unità. E per i partiti è l’opportunità di recuperare parte della credibilità perduta.

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