La guerra sulla pelle

Prologo
«Nell’epoca dell’innovazione, nell’epoca dell’elettricità indossiamo l’umanità come una seconda pelle». Così Marshall McLuhan, di fronte all’apparecchio televisivo, spalancando gli occhi sulle rivolte dei neri nei ghetti delle metropoli americane. L’inventore della metafora del «villaggio globale» affondava così la lente consegnandoci una coscienza molto meno bucolica del mondo «grande e terribile» ormai vissuto come casa. E pensare che allora non c’era Internet, né i social network. Tanto meno quegli smartphone con cui ci portiamo e compulsiamo il «mondo in tasca» in ogni istante del giorno e della notte.

Da giorni l’Ucraina danza dolente nei nostri occhi sotto le scie abbacinanti dell’attacco russo. L’angoscia per una «terza guerra mondiale» cresce e con essa interrogativi – magari inconfessabili, un po’ più egoistici – sul nostro futuro immediato.

C’è già stata una prima volta. Qualche decennio fa a memoria dei più anziani: Cuba, 1962. Un altro mondo, un’altra età. Già allora alta si levò la voce di un Papa, ad ammonire, a suscitare speranza. Allora Giovanni XXIII. Oggi Papa Bergoglio, Francesco I.

L’impensabile
A far la differenza ci si è messa invece la pandemia. Per due anni e passa ci ha flagellato con la devastazione della vita quotidiana esposta alle incursioni del globale. Nulla però rispetto ad oggi. Ancora qualche giorno fa non avevamo piena coscienza di come il tempo potesse finire terremotato dall’incalzare degli eventi e della cronaca. Il pieno di benzina diviene incubo per il portafogli così come lo sguardo che si fa ansioso nella ricerca rassicurante di pane e pasta sullo scaffale del supermercato. La finanza era un tempo un mondo impenetrabile, abitato da sigle misteriche. Oggi con i suoi prime e subprime squaderna, sotto il fuoco delle sanzioni, tutto il suo potere nell’angoscia con cui aspettiamo al bancomat la risposta fatale al ticchettio del nostro PIN: non è che adesso mancano risposte e soldi come in Russia? Rimbalzano anche qui le sanzioni?

Herman Khan, lo stratega della Rand Corporation che ispirò a Stanley Kubrick il personaggio del Dottor Stranamore, sosteneva già nel titolo della sua opera più famosa che, per sopravvivere e vincere nell’età nucleare, bisognava «pensare l’impensabile»: Tkinking the Unthinkable. Ciò che non credevamo di poter nemmeno immaginare oggi è divenuto cronaca, assillo continuo.

D’ora in ora e da giorni l’angoscia sale. E con essa interrogativi capitali. Da quando il 21 febbraio scorso Vladimir Putin ci ha sorpreso con un discorso memorabile: ««L’Ucraina non è solo un paese vicino per noi. È parte inalienabile della nostra storia, cultura e spazio spirituale. Questi sono i nostri compagni, le persone a noi più care». Sono giorni però che su questi compagni di strada e di sangue la Russia fa piovere bombe. È guerra, guerra dichiarata tra Stati o stasis, come dicevano i Greci, «guerra civile», guerra tra fratelli?

Putin in realtà ha deciso di impugnare le armi non contro nemici giurati: per quanto dipinti come guerrafondai, magari «drogati e nazisti», nelle sue parole. Sta facendo a pezzi le viscere profonde della «Grande Madre Russia». Una guerra civile che sospende il mondo su un baratro indicibile: «la Russia moderna anche dopo il crollo dell’URSS resta una potenza mondiale, con un proprio arsenale nucleare e altro ancora (nuovi tipi di armi) […] Chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Con queste parole, nel suo secondo discorso del 24 febbraio alla nazione e al mondo, Putin sospinge il pianeta sull’orlo di un precipizio mai varcato.

 Un mondo nuovo
Di qui il nostro bisogno di orientarci, di tornare ad inquadrare il nostro presente, la nostra collocazione nel mondo e nello spazio. A far tappa l’89 sicuramente: la caduta del Muro di Berlino. Quell’evento giunse come un vero e proprio cataclisma sul blocco socialista aggregato attorno all’URSS. Eppure, quello scossone era iniziato altrove. Proprio nella Cina di Tienanmen. Solo che già dieci anni prima Deng Xiaoping, con l’apertura delle «zone economiche speciali» e le «quattro modernizzazioni», aveva trasformato la Cina nel retrobottega, nell’officina del mondo intero. Forte di quei legami aveva potuto reprimere il grido dei giovani che chiedevano in piazza libertà e apertura.

Altra la vicenda in Russia, giunta esausta e stremata a quel tornante storico. E là dove tutto era iniziato tutto finì all’indomani del cataclisma provocato nel mondo dagli strappi inferti dall’Iraq di Saddam al tessuto internazionale. La risposta allora fu unitaria, sia pure sotto il segno arrembante e guerresco dell’unilateralismo americano. La tela fu risarcita grazie alla mobilitazione globale, ma anche al prezzo di una nuova guerra fortemente voluta dagli USA.

A far la differenza le scelte di Gorbaciov in Europa e nel Golfo: le sue aperture alla riunificazione tedesca, lo sguardo fisso sulla pace durante tutta la guerra del Golfo. Si apriva una pagina nuova. L’Europa intera pensò che era il momento di muoversi per strade inedite, dall’Atlantico agli Urali. Nasceva l’Unione europea. Per la prima volta nella storia un impero provava a non suscitare guerre o terremoti pur vedendo messa in discussione la sua stessa esistenza.

Al G7 di Londra del 1991, aperto finalmente all’URSS, Gorbaciov chiese aiuto per una inedita transizione: la sua mano tesa però non fu stretta da alcuno. I Grandi lasciavano cadere ogni prospettiva di collaborazione nel domani indeterminato di un futuro mutamento di sistema. In risposta arriverà il Golpe di Agosto con un complessivo rivoluzionamento di uomini e regimi.

Archiviata la mutazione cui Gorbaciov – sia pure domando a stento le prime spinte separatiste – stava  dando corso con il referendum sulla conservazione dell’URSS e la successiva creazione dell’“Unione degli Stati sovrani”, Eltsin accantonerà Gorbaciov e l’Unione Sovietica. Vi riuscirà, grazie alla scelta di gran parte della nomenklatura sovietica di salvarsi, magari mettendosi in affari, provando a perpetuarsi in «oligarchia».

Nasce allora la CSI, Comunità degli Stati Indipendenti, con l’esclusione di Lettonia, Lituania ed Estonia che sul Baltico riconquistano a distanza di oltre mezzo secolo l’indipendenza. Nascono allora Federazione Russa, Ucraina e Bielorussia: figlie di un parto plurigemellare attivato dalla dissoluzione dell’URSS in CSI. Successiva l’associazione alla Confederazione delle altre 9 repubbliche (compresa quella caduca della Georgia). Gemmate – per reciproco riconoscimento e in sovrana autonomia – da un unico grembo con grandi comuni tradizioni ma marchiate anche da odi insanabili. A testimoniarlo sta ancor oggi, in particolare per l’Ucraina, l’Holodomor, con i suoi milioni di morti. Sta lì a dividere e contrapporre, soprattutto lacerare, nei racconti di nonni e genitori, memoria e vita di chi abita quelle terre.

Vale allora la pena di osservare come all’indomani della nascita della CSI, l’Ucraina – similmente a Bielorussia e Kazakistan – rinunci ai propri arsenali atomici per renderli alla Federazione Russa o disfarsene: ereditati dall’URSS (con circa 4300 testate nucleari, ovvero il 16% circa del complesso delle atomiche sovietiche) le avrebbero permesso oggi, se avesse voluto, di ergersi tra i Grandi della Terra con pollice sul bottone rosso della distruzione totale.

Ignavia europea e atlantismo calamitoso
In Europa intanto scoppiava, lungamente covato, il bubbone jugoslavo, degenerato ben presto in guerra civile. Ad alimentarlo soprattutto divisioni e egoismi degli europei, incapaci a Maastricht di andare oltre la prefigurazione di una Europa neoliberale, orientata dalla moneta unica, ma orba di una visione del mondo e di una strumentazione di sicurezza comune. L’ignavia europea avrebbe permesso di lì a qualche anno, costellato di massacri e barbarie etniche, di dare pieno riconoscimento alla profezia-promessa lanciata dal segretario di Stato americano, James A. Baker III, all’indomani della caduta del Muro: «Gli USA sono e rimarranno una potenza europea». Saranno i loro bombardamenti, prima in Bosnia e poi in Kosovo, a mettere fine a quei massacri ma anche a dare nuovo lustro all’Alleanza Atlantica e al suo cuore militare, la Nato, proprio nel cuore della nuova Europa.

 Sull’onda di una inedita teorizzazione dei «diritti umani», unilateralmente rivisitati alla luce dell’ineludibile «dovere di ingerenza umanitaria», l’Alleanza atlantica all’indomani della «guerra celeste» in Kosovo riscriveva surrettiziamente i propri trattati istitutivi modificando la propria postura strategica. Il postulato della difesa dall’attacco esterno veniva latamente reinterpretato in base alle nuove onnipresenti minacce potenzialmente rappresentate per ognuno dalla permanente permeabilità ai flussi e ai processi di interdipendenza globale.

Nasceva così nel cuore d’Europa, accanto e in sovrapposizione alle permanenti carenze strategiche dell’UE, l’attrattore potentissimo della Nato. Una calamita, amministrata con grande sapienza dagli USA e con somma negligenza dagli europei. A potenziarla ulteriormente provvedevano l’ingresso del mondo nel Terzo Millennio sospinto dal vento di una storia che si voleva alla «fine» e dal bagliore fatale dell’11 settembre. Come dimenticare l’articolo 5 dell’Alleanza atlantica con il suo obbligo assoluto della mutua difesa? Mai invocato nella vicenda della più fortunata alleanza della storia umana, capace di piegare il «male assoluto» del comunismo, ma attuato a parti invertite con gli Europei in soccorso degli USA colpiti dal nuovo terrorismo globale.

È da lì, da quella porta di fuoco che la Nato entra nel XXI secolo e si espande in un vortice di allargamenti continui. Avevano cominciato Polonia, Repubblica Ceca ed Ungheria nel marzo 1999, ma è dopo l’11 settembre e l’apertura del fronte afghano che i movimenti si fanno convulsi e continui fino ad inglobare altre 11 repubbliche tutte ad Est, tutte allevate e cresciute nell’universo o sotto il controllo sovietico. Un mondo intero ripudia il vecchio controllore per cercare sicurezza nell’entità diabolicamente esecrata per quasi mezzo secolo. Il tutto senza inaugurare grandi basi militari, se non postazioni per la difesa missilistica specie dopo l’11 settembre: un tema assai controverso vissuto dai Russi come minaccia.

Adesso tutte le potenze neutrali del Nord stanno chiedendo di essere ammesse alla Nato: Svezia e Finlandia (questa addirittura con la richiesta di un referendum). La Svizzera ha condiviso con le altre le sanzioni alla Federazione Russa.

Le profferte e le effusioni dei vari MAP, Membership Action Plan, nei confronti di Bosnia ed Erzegovina, Georgia o Ucraina hanno animato la cronaca più recente (senza dimenticare che concretamente nei confronti dell’Ucraina domande e inviti si sono finora risolti nel riscontro da parte occidentale di alcuni impedimenti nel processo di democratizzazione delle istituzioni ucraine: incompleta garanzia del controllo civile sulle forze armate, scarsa presenza di civili all’interno dei ministeri chiave ecc.).

Né è possibile dimenticare le strane – a guardarle oggi – liaisons tenute a battesimo soprattutto dall’11 settembre tra Russia e Alleanza Atlantica: proprio allora vede la nascita il Russia-Nato Council, con le sue molteplici forme di cooperazione nella guerra afghana: una cornice ancora più ampia entro cui hanno trovato una sistemazione più organica i rapporti a lungo intessuti tra Nato e Russia fin dal 1991 all’interno del North Atlantic Cooperation Council, vieppiù rafforzati nel 1994 dal programma Partnership for Peace.

Val la pena di ricordare che tutte queste forme di cooperazione e reciproco riconoscimento non sono mai state revocate da parte russa, anche in momenti di estrema tensione: ad esempio, quando nell’aprile 2014 la Nato all’unanimità decise di sospendere ogni pratica cooperazione con la Federazione Russa in risposta all’annessione della Crimea. C’è voluto l’incidente nell’ottobre 2021, con cui la Nato ha espulso dal quartier generale di Bruxelles otto ufficiali russi accusati di spionaggio, perché la Russia si decidesse ad ordinare la chiusura della dipendenza Nato di Mosca.

Perché la guerra?
Ma allora perché? Perché questa escalation?

La risposta è forse nei processi che hanno sconvolto e rifatto questo immenso paese dopo l’inabissamento dell’URSS. Nella curva spaventosa in discesa del suo PIL, negli anni di Eltsin, a malapena ma in forme sbilenche e a fatica messa all’insù da Putin: un Paese oggi di 140 milioni di abitanti, ma con indici produttivi inferiori a quelli italiani, inflazionati da gas e petrolio, ma fortemente penalizzati dalle importazioni nelle alte tecnologie.

La risposta è forse in una demografia sconvolta dalla mancanza di futuro e prospettive, destinata secondo le prospezioni più accreditate ala condanna di 132 milioni di abitanti nel 2050 rispetto agli attuali 144 o ai 149 del 1991.

In crescita e in maniera stanno sicuramente le spese militari, giunte ad oltre il 4% del PIL. Lì forse un segno della ricerca affannosa per conservare uno spazio e un ruolo rimessi duramente in discussione da un pianeta in subbuglio, dall’ascesa della Cina e dell’India.

Perché? Perché allora questo mutamento così repentino?
Cosa resta del leader da tanti acclamato fino a pochi giorni fa per la sua visione degli equilibri mondiali, per la sua capacità di riportare la Russia a nuovi fasti globali?

Ben poco. Soprattutto perché questa guerra nell’immediato rischia di avere effetti devastanti. E non solo in Ucraina. Il pericolo vero è per la stessa Russia. Come reggere ad una impresa e ad una possibile occupazione militare ben più dure e devastanti di quelle in Afghanistan? E senza calcolare l’effetto delle sanzioni. Sui russi stessi prima ancora che sull’Europa e sul mondo?

Che fare allora? E con quali mezzi.

A guardarsi attorno si è assaliti dallo sconforto. Quando ci si volge all’ONU si trova sicuramente un consesso ancora capace di far udire la sua voce. E lo ha anche fatto con la sua Assemblea generale. Fatto sta che in materia di pace e sicurezza internazionale sovrano è il Consiglio di Sicurezza. E lì pesa imperioso il sicuro no della Federazione Russa, il cosiddetto «potere di veto». Non si va molto lontani dal verosimile se si pensa che all’unisono – e sia pure in forme diverse – USA e Cina ne approfitteranno. L’interrogativo forte, ma pieno di speranza, volge all’Europa. Può molto. Ma lo farà? Riuscirà? Invierà aiuti, sicuramente. Ma come?

Che la storia fosse alla «fine» si rivela oggi veramente una favola dei tempi andati. Siamo trascinati ormai in un galoppo cupo e sfrenato.

L’unica sicurezza, oggi più che mai, è il no alla guerra. Lì vi è il primo dovere di ognuno.

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