Post-Antropocene: sostanza di cose sperate

Massimo Pica Ciamarra

Sapiens. Da animali a dèi (Yuval Noah Harari, 2011) è il titolo efficace di una rapida storia dell’umanità. Racconta di un percorso meraviglioso, ora però improvvisamente sconvolto da un impalpabile virus, un disastro e al tempo stesso una occasione di risveglio. Oltre a parlare di virus e delle conseguenze sull’uomo, Spillover (David Quammen, 2012) mostra come sia il dominio dell’uomo sull’ambiente la più pericolosa pandemia contemporanea. Le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del nostro pianeta sono sempre più condizionate dalla presenza umana, ed ormai in forme tali da aver reso riconoscibile una nuova vera e propria epoca geologica, l’antropocene.

Non lo facevano in passato, ma è da tempo che le azioni umane generano conseguenze negative. Sono responsabili della insostenibilità globale dei processi e del minaccioso avvicinarsi dell’overshoot day in continua accelerazione da cinquant’anni, quando era sconosciuto. Nel 2019 è stato il 29 luglio il giorno in cui l’umanità ha già consumato l’insieme delle risorse prodotte dal pianeta nell’intero anno. Post-Antropocene invece è un neologismo ambizioso: connota l’epoca nella quale l’umanità sarà riuscita ad invertire il processo, a far scomparire ogni forma di inquinamento e di sedimentazione perversa, a riportare l’overshoot day almeno al 31 dicembre, dove era ancora nel 1970.

Vari testi stimolano riflessioni: Survival through Design (Richard Neutra, 1954), Collapse: How societies choose to fail or succeed (Jared Diamond, 2004), Progress: Ten Reasons to Look Forward to the Future (Joahn Norberg, 2012). Aiutano anche la Déclaration des Devoirs de l’Homme (Le Carré Bleu, 2008) relativa all’habitat ed agli stili di vita nel rispetto delle diversità; Laudato si’ (Papa Francesco, 2015); La cura della casa comune (Autori vari, 2020) ed anche l’efficace aforisma «se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna e preparare gli attrezzi, non dividere i compiti e impartire ordini: infonda in loro la nostalgia per il mare vasto e infinito» (Antoine de Saint-Exupéry, 1943). È basilare infatti che i più vogliano davvero un Post-Antropocene e che lo intravedano come essenziale per il futuro. Solo una comunità convinta che «verrà un giorno in cui l’economia occuperà quel posto di ultima fila che le spetta e diventeranno protagonisti rapporti umani e creatività» (John Maynard Keynes, 1931) può impegnare il massimo delle sue risorse per dare qualità agli ambienti di vita perché tornino a formare la «seconda natura finalizzata ad usi civili» (Johann Wolfang Goethe, 1816). Senza riecheggiare però forme del passato: forse basterebbe impegnare la stessa percentuale di risorse che, in vari periodi del passato, venivano destinate a qualità e bellezza di edifici ed ambienti di vita. Quando – negli interventi pubblici come in quelli privati, benché ancor più insensibili di oggi a diseguaglianze e solidarietà – potere politico e potere economico acutamente lasciavano spazio al potere della bellezza.

L’attuale pandemia viene paragonata a una guerra. La guerra non solo distrugge vite umane, distrugge materialmente anche le città. Quando finì l’ultima grande guerra ci fu una reazione corale, aiutata dal Piano Marshall (che non era solo aiuto economico perché spinse a trasformazioni strutturali). Il miracolo economico cambiò molte cose: l’Italia si trasformò sostanzialmente. Oggi la pandemia privilegia le aree più inquinate, le maggiori concentrazioni urbane; non distrugge le città, ma fa capire che è urgente trasformarle in profondo e che anche molti dei comportamenti abituali sono da modificare. Comunque prezioso, non basta un «riarmo morale»: il mondo si scopre debolissimo di fronte a un impalpabile ignoto. Non dovrà più esserlo: urge una sostanziale rivoluzione.

Dal Club di Roma all’Intelligenza Artificiale
Si dice che dopo l’attuale pandemia nulla sarà più come prima. Può essere. Però solo se sapremo affrancarci da quanto fin qui sembrava normale ed invece contribuiva al disastro; solo se sarà chiara la prospettiva in cui dirigerci, come orientarci. Poco dopo I limiti dello sviluppo (Autori vari/Club di Roma, 1972) anche la grande crisi energetica del 1973 dette avvio a risvegli e ripensamenti: fece capire la bellezza delle domeniche a piedi e spinse alla ricerca delle informazioni perdute, delle saggezze dimenticate ma da rielaborare per adeguarle alle varie e nuove dimensioni. Quella crisi portò ad una diversa sensibilità per le questioni energetiche e ambientali: molto è stato fatto, ma molto è ancora da fare come rende evidente la stessa attuale pandemia. Dopo cinquant’anni gli ambienti di vita hanno di nuovo la necessità di essere ripensati, vanno riscoperte antiche e nuove dimensioni, antiche e nuove possibilità nell’affrontare la realtà e nel trasformarla. Solo una straordinaria mutazione delle nostre mentalità può portare ad una svolta epocale.

L’ampia messa a disposizione – agile, unitaria, coordinata, costantemente aggiornata – del massimo delle informazioni sullo stato di fatto del territorio in uno con vincoli, normative e programmi che lo interessano (Fine dell’ignoranza ingiustificata, 2019) e il radicale sfoltimento normativo (magari cominciando con trasformare in raccomandazioni quanto impropriamente rigido) sono precondizioni per porre fine al «consumo di tempo», uno spreco intollerabile (Divari e consumo di tempo, 2020). Spreco al quale paradossalmente sembra possibile opporsi solo se le procedure eccezionali diventano prassi e quelle abituali l’eccezione. Non è un paradosso: é la linea nella quale curare apparati resi sempre più complessi da una cultura patologica e vetusta.

Ovviamente non basta, occorre chiarezza su cosa sia davvero un mondo migliore, in che direzione trasformare quanto abbiamo. Pur senza addentarci nello scrutare il futuro, ci si rende conto che le condizioni attuali sono del tutto inedite. Dal passato siamo distanti per l’eccezionale crescita demografica e soprattutto per come sono mutati i modi di pensare. L’era informatica rende sempre più unitario l’insieme: consente a miliardi di individui di vivere interconnessi, mette ad immediata disposizione enormi e crescenti quantità di informazioni. Telefono, televisione, teleconferenza, telemedicina, televendita, telestampanti, televoto, telelavoro, telepatia: in alcuni contesti favoriscono la dispersione, qui invece no, possono portare a più vere aggregazioni. La nostra «terra di città» può organizzarsi per garantire un’effettiva indifferenza territoriale e la riscoperta dei centri minori da sapientemente interconnettere.

Un mondo interconnesso impone gestioni coordinate, visioni unitarie ma rispettose delle diversità. La scienza continua a decifrare sempre nuove forme di legami e di connessioni – fuori, nel Quarto Ambiente – ed anche interne al nostro pianeta. L’avventura umana, quella dell’homo sapiens, è decollata alcune decine di migliaia di anni fa con la cosiddetta «rivoluzione cognitiva» che ha dato avvio a collaborazioni e fenomeni accomunanti. Oggi sappiamo che tutti gli esseri viventi hanno profondi legami, sia fra loro, sia con altre forme di vita compresenti. Le piante sono interconnesse, si mandano messaggi e avvertimenti. Così gli uccelli nei loro stormi, i pesci nei loro banchi. La stessa materia nella sua struttura profonda, le stesse forze ed i campi di energia che la sostengono ignorano barriere fra organico e inorganico. Questi legami non sono esclusivi di categorie, sistemi o gruppi: dialogano, condizionano, intrecciano. Alla base della creatività del Sapiens non c’è egocentrismo, ma collaborazione; c’è il pensiero associativo, oggi sempre più supportato dalla cosiddetta Intelligenza Artificiale.

seconda parte Post-Antropocene: azioni

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