Attesa e domande

Marco Panara

Viviamo tempi di attesa. E di domande. Quando finirà? Saremo cambiati al termine di questa esperienza? E come? Come sarà l’economia dopo questo trauma? E la politica? E il lavoro? Quanti lo perderanno? E poi, più prosaicamente: riapriranno le scuole? Continueremo a trovare le cose di cui abbiamo bisogno? Questa estate andremo al mare, in montagna, in campagna o comunque in vacanza?

Le risposte non ci sono, possiamo ingannare il tempo facendo camminare i nostri pensieri e formulando ipotesi. Per esempio sui tempi. Aprile in molti lo danno ormai per perso, possiamo forse puntare su una prudente riapertura nella seconda metà di maggio. Per le scuole probabilmente se ne parlerà a settembre. Quello che ci serve per la sopravvivenza dovremmo continuare a trovarlo, intanto forse interiorizzeremo, senza neanche accorgercene, il concetto di superfluo, il che potrebbe aprire una falla nel modello economico nel quale abbiamo vissuto fino a ieri, la società dei consumi trainata dalla domanda. O forse no. Dopo un po’ di digiuno forzato la libertà di shopping farà esplodere le nostre voglie.

L’estate probabilmente sarà salva, se non lo fosse avremo altri problemi a cui pensare che non alle vacanze. Se ne saremo usciti, come probabile, tuttavia saremo ancora a libertà limitata, dalle regole pubbliche, dal buon senso e dai soldi in tasca, che per moltissimi saranno meno rispetto agli anni passati. Per l’industria del turismo, per le compagnie aeree, per le compagnie croceristiche il 2021 sarà un anno durissimo.

Per tutti coloro che non hanno vissuto la guerra questa è la prima esperienza traumatica globale che condiziona in maniera profonda le nostre vite. Non abbiamo casi pregressi di questa portata che ci possano aiutare a capire quali potrebbero essere gli effetti sulle persone e sulla società nel suo complesso. Potremmo uscirne migliori, più umili, più consapevoli, più capaci di apprezzare quello che di piccolo e di grande ci offre la vita, più rispettosi e magari anche più generosi. Oppure incattiviti, delusi e frustrati, impauriti, affannati a costruire muri per proteggerci e per escludere.

Non c’è una risposta e non c’è qualcuno che possa determinare l’uno o l’altro esito, ma chi potrebbe influenzarlo c’è: è lo Stato, è l’Europa, sono le istituzioni.

L’epidemia ci ha fatto riscoprire lo Stato, nessun soggetto privato, nessuna forza di mercato potrebbe affrontare la tragedia in atto e contenerne i rischi. Anche chi come Donald Trump e Boris Johnson in un primo momento hanno optato per lasciare libere le forze della natura e quelle dell’economia sono dovuti tornare rapidamente sui propri passi. L’approccio liberista di fronte al dramma non funziona e politicamente non pagherebbe. Quando nel Regno Unito in attesa dell’«immunità di gregge» i morti fossero migliaia e gli ospedali non in grado di fornire le cure a chi ne ha bisogno, i padri e le madri, i figli, le mogli e i mariti di chi resta senza cure non starebbero a casa a piangere e ad aspettare e alle prossime elezioni non dimenticherebbero chi ha la responsabilità per le cure negate ai propri cari.

Lo Stato è l’unico baluardo possibile, con le strategie per contenere e sconfiggere il virus, con le regole conseguenti e la capacità di farle rispettare, con le infrastrutture necessarie per contrastarle, con le risorse economiche enormi necessarie a mantenere in piedi la società e a consentire la ripartenza.

L’auspicio è che non ci deluda, il prezzo sarebbe altissimo.

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