C’era una volta il calcio nobile e vincente di Enzo Bearzot

Darwin Pastorin

Sono i giorni del confuso calderone di SuperLega, Uefa e Fifa, di un pallone, sempre più, svenduto ai petrodollari degli arabi, del cinismo del marketing che ha ceduto il posto alla fantasia del dribbling, delle ragione postuma di Diego Armando Maradona, voce a suo tempo non ascoltata, un urlo nel deserto degli interessi pubblici e privati. È un calcio senza più anima, senza più i breriani principi della zolla, senza più la meraviglia: resta la nostalgia di un tempo, ormai, antico, dove i beniamini del prato verde avevano sostituito, nei miti giovanili, gli eroi salgariani.

Proprio per questa ragione, sfogliando i giornali di oggi, intrisi di un football inteso come affare e come potere, noi, per ribellione romantica, celebriamo un uomo che fu in grado di portare il nostro sport più popolare al centro dell’universo, nel contesto di un’impresa epica, la conquista del Mundial del 1982 in Spagna, contro tutto e tutti: Enzo Bearzot, il Vecio, come lo chiamò Giovanni Arpino nel suo folgorante e sempre attuale romanzo, Azzurro tenebra («Il Vecio scosse la mutria, rassegnato. Sembrava triste, ma se appena scopriva i denti in un sorriso, ecco che poteva incutere paura. In quell’attimo il volto, pur buono, avrebbe allontanato qualsiasi bullo da caffè: un calcio, durante lontane risse in area di rigore, aveva schiacciato il setto nasale del Vecio, che ora ostentava la maschera sorniona d’un pugile in guardia perenne»).

Undici anni fa, Bearzot ci lasciava passando dalla cronaca alla leggenda. Un uomo giusto e un allenatore dalla schiena dritta, un vero e proprio hombre vertical. Fu lui, in quell’82, a convocare, tra critiche roventi, Paolo Rossi, il suo Pablito, reduce da una ingiusta squalifica di due anni nel vortice dello scandalo delle scommesse clandestine e con sole tre partite, e un gol, sulle spalle con la maglia della Juventus. E fu sempre il Vecio, in terra spagnola, a dare fiducia a Pablito dopo quattro incontri senza reti e con gli azzurri, esasperati da veleni e rancori, chiusi nel silenzio stampa.

Il 5 luglio, al Sarrià di Barcellona, l’Italia mise in ginocchio il favoritissimo Brasile 3-2, tripletta di Rossi. Poi, la cavalcata trionfale tra peana e clangor di buccine: 2-0 alla Polonia in semifinale (doppio Pablito), 3-1 alla Germania Ovest in finale (Pablito, Tardelli, Altobelli). 11 luglio, stadio Santiago Bernabeu, davanti a Sandro Pertini, il nostro presidente partigiano, felice come un bambino in tribuna d’onore. Paolo se ne andava nel 2020, anche lui a dicembre. E ci piace immaginarli insieme, abbracciati tra le nuvole, il Vecio e Pablito, i due campioni omerici che portarono gli italiani a festeggiare per ogni contrada nelle stagioni nere del terrorismo, per un attimo liberi da paure e sgomento.

Ci mancano quegli sportivi senza macchia e senza paura, quell’epoca incantata di un pallone metafora dell’esistenza e del riscatto. E ritrovo il Vecio dirmi, nel 1976, quando ero un giovane e sognante cronista del Guerin Sportivo, diretto da Italo Cucci: «Io per Darwin e Freud ci sono sempre!». Caro Enzo, non ti dimenticherò mai. Sei una presenza viva nel mio cuore e nella mia infinita saudade.


Per chi volesse approfondire la conoscenza di Enzo Bearzot o ricordare la grandezza dell’uomo e dello sportivo, vi consigliamo di leggere il libro di Darwin Pastorin, Lettera a Bearzot. Il Vecio, Pablito, il Mundial ’82 e altri incantesimi. Prefazione di Alessandro Di Nuzzo, Compagnia editoriale Aliberti.

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