Cinema e razzismo, passato e presente

Giorgio Simonelli

Ciò che sta accadendo negli USA, l’uccisione per mano della polizia di un giovane afroamericano, le proteste che ne sono seguite, il ritorno della violenza, gli atteggiamenti inopportuni del Presidente hanno suscitato in tutto il mondo reazioni di preoccupazione e indignazione. Ma non minore è stata la sorpresa, la sgradevole sensazione di essere stati colti impreparati da un fenomeno che si pensava ormai superato, archiviato.

Due mandati consecutivi alla Casa Bianca di un presidente di colore, la grande popolarità quasi un’adorazione per una first lady orgogliosamente di colore ci avevano fatto pensare al razzismo americano come a qualcosa di residuale, marginale, appartenente a un passato ormai metabolizzato. All’affermazione di questa ipotesi ottimistica, che si è rivelata all’improvviso un’illusione, ha contribuito in maniera determinante, il cinema.

Nell’ultimo decennio sono stati prodotti negli Stati Uniti molti film sul tema del razzismo, opere di denuncia, di svelamento, di ricostruzione di vari episodi di intolleranza, di ingiustizia, di sopraffazione nei confronti dei cittadini e delle comunità nere. Ma se si guarda con attenzione alle storie raccontate in questi film, si scopre una costante: fatte pochissime eccezioni, le vicende sono tutte ambientate in un’epoca precedente, un passato recente ma pur sempre passato. Come se il cinema americano, quasi tutto progressista, volesse ricordare quali crimini sono state perpetrati e giustificati, quali danni ha subito la legalità democratica; ma tutto ciò in un tempo che – questo è l’ammonimento – non deve e non può tornare.

Dicevamo delle eccezioni a questa tendenza e partiamo da qui. Non sono molte: la prima, molto vistosa, è rappresentata dal cinema di Spike Lee, un regista di colore che, dal suo esordio con Lola darling fino all’appena ultimato Come fratelli, si è dedicato all’analisi della condizione afroamericana, dei suoi valori, dei suoi splendori, delle sue ambiguità, della sua insuperabile conflittualità, talvolta osservate all’interno di vicende passate, più spesso in contesti contemporanei.

L’altra eccezione è quella di un film di George Tillman del 2018, Se la strada potesse parlare, storia di una giovane che rivela la vera causa della morte di un amico di colore, ucciso da un poliziotto che lo aveva fermato e aveva scambiato una spazzola per una pistola. Il film è tratto, anzi ispirato da un romanzo di Angie Thomas che colpì profondamente il regista pur impegnato in un’altra lavorazione.

Queste le eccezioni; la regola invece porta a cercare le storie nel passato. Così fan tutti. Fin dal 2002 quando Todd Haynes realizzò Lontano dal paradiso, ambientando nel 1957 la storia d’amore proibita e scandalosa tra una signora della middle class e il suo giardiniere di colore. Nel 2014 è Selma di Ava DeVernay a rievocare la grande marcia organizzata da Martin Luther King nel 1965 nello stato segregazionista dell’Alabama, decisiva per gli sviluppi della legge sui diritti civili. Nel 2016 escono Lovig di Jeff Nichols, ricostruzione della storia di una coppia interraziale, condannata per questa violazione, che nel 1958 intentò causa allo stato della Virginia e Il diritto di contare in cui Theodor Melfi rievoca la vicenda delle scienziate di colore che negli anni sessanta collaborarono ai successi della NASA e il cui apporto fu completamente oscurato. Nel 2017 è Kathryn Begelow a tornare sui moti di piazza che incendiarono Detroit nel 1967 mentre il 2018 è l’anno del pluripremiato Green Book di Peter Farrelly originale racconto delle rocambolesche avventure vissute nell’America del 1962 dal grande pianista di colore Don Shirley e dal suo bizzarro autista bianco.

D’altronde questa scelta di guardare indietro nella rappresentazione del problema razziale cogliendo nel passato gli esempi da mettere in scena è probabilmente un tratto originario del cinema americano.

Basti pensare a quello che può essere considerato il capostipite di questo cinema civile, Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan con la celeberrima interpretazione di Gregory Peck che, uscito nel 1961 in pieno clima kennedyano di battaglia per i diritti civili, racconta una storia degli anni Trenta. Così come fa il Ragtime di Milos Forman che rimane il vero capolavoro di questo stuolo di film impegnati a denunciare le ingiustizie e le sofferenze vissute dalla comunità afroamericana. Un’opera, quella di Forman di grande potenza visiva e di una radicalità assoluta, laddove individua l’origine del grande male in una banalità: un gruppo di pompieri non può tollerare che un “negro” viaggi su una macchina di lusso e gli cosparge i sedili di sterco, provocando la sua reazione che, non accolta dalle istituzioni, porterà a conseguenze estreme. Il tutto in quegli anni ruggenti in cui aperture sociali e culturali si scontravano con irrigidimenti ed esclusioni.

Non si può certo sospettare che questa tendenza a coniugare il tema del razzismo al passato sia il frutto di opportunismo, né di una mancanza di coraggio, di un desiderio di eludere l’attualità del problema. Ma non si può sfuggire al dubbio che questo sguardo costantemente volto al passato, questa attenzione per vecchie storie con i loro happy end abbiano finito per agire involontariamente da rassicurazione sul presente. Un presente implicitamente suggerito come diverso da quei momenti tragicamente conflittuali in un quadro un po’ sbilanciato destinato a sbriciolarsi di fronte alla durezza dei recenti fatti di Minneapolis.

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