Draghi, il virus e la de-polarizzazione

Sergio Baraldi

Un nuovo scenario avanza: il baricentro si sposta dai leader alle issues, perde vigore la logica del conflitto, si afferma quella del bene comune. Conta agire non dire. Ritorna la moderazione?

Il nuovo premier tace. O dice l’essenziale. Eppure rivela un potere di definizione più forte della tradizionale capacità di orientamento di un capo di governo. Ha scompaginato il sistema politico. Ha innescato una ristrutturazione delle alleanze e delle identità dei partiti. Ha influito sullo spazio sociale: il Paese viene condotto verso un posizionamento che rappresenta il punto più lontano dal voto degli italiani del 2018, quando vinsero i partiti populisti o antisistema, M5S e Lega. Sembra proporsi come la figura che inaugura una fase politica nuova e ne chiude un’altra, quella dei governi giallo-verde e giallo-rosso. Draghi sembra avere posto il Paese di fronte allo specchio del suo silenzio o delle parole misurate. Se nella fase passata avevamo assistito all’egemonia della politica come performance, oggi al centro del discorso pubblico si installa il tema della strategia di adattamento del Paese all’emergenza. E della sua modernizzazione.

L’ex presidente della Bce è stato scelto dal presidente Mattarella di fronte allo stallo del sistema politico, incapace di garantire un governo durante la crisi più grave dal dopoguerra. Ma la decisione del Quirinale non sembra cadere nel vuoto sociale. Anzi è stata riconosciuta da una parte della società italiana (secondo i sondaggi sulla fiducia) che forse sempre meno si riconosceva nella maggioranza di Conte. Si tratta di tentare di capire, quindi, all’interno di quali «processi di significazione», cioè di interpretazione e di costruzione del discorso pubblico mediatizzato, Draghi arriva a Palazzo Chigi e Conte ne esce. Quale regime di senso e di interazioni reca con sé. Verrebbe da dire: adesso che l’esecutivo è in carica, occorre comprenderlo.

La politica come performance e il ritorno delle issues
La conseguenza di una nuova logica che prende il posto della precedente è l’emergere di un universo simbolico, di un sistema di valori e di credenze, di un quadro interpretativo (un frame) differenti. Draghi attribuisce un senso nuovo agli attori, ai temi, agli eventi di prima. Il suo governo è il dopo che riscrive il prima. Il sigillo di questa modalità di costruzione del discorso pubblico è il silenzio o la parsimonia delle parole.

Non è la rinuncia a comunicare di un premier che non deve presentarsi alle elezioni e cercare consenso. Già Paul Watzlawick aveva spiegato che «non si può non comunicare». Il silenzio è una forma di comunicazione. Istituisce un principio unificante in cui il fare precede l’enunciare. Svolge la funzione di circoscrivere il dibattito politico esposto ogni giorno alla contrapposizione dei leader. Delimita le valutazioni contrastanti dei partiti, crea un’attesa per la sintesi del premier. Il silenzio o il dire misurato restringono l’arena comunicativa dei partiti, che da rivali si sono ritrovati alleati ma restano in competizione. E tendono a derubricarla a spazio dello show politico. Il tacere o il dire l’essenziale, invece, distingue lo spazio della governabilità. È lo spazio della negoziazione e della decisione in cui Draghi coordina le due sfere (spesso stridenti) del suo governo: quella istituzionale, con i ministri chiave scelti da lui, e la sfera dei partiti, nella quale il premier ha accontentato le richieste delle forze politiche che lo votano in Parlamento.

Il tacere o il dire l’essenziale segnano una prima discontinuità con i governi precedenti. Il Conte I e il Conte II sono accomunati dall’idea della politica come performance, in cui attraverso la comunicazione si metteva in atto una disintermediazione attraverso la mobilitazione di social e tv. L’obiettivo non era solo la relazione diretta con i cittadini, ma la teatralizzazione della responsabilità di governo. La disintermediazione serviva a sancire la presenza sulla scena dei leader (da Salvini a Di Maio a Conte). Confermava il loro protagonismo nel plasmare la realtà. Al punto che la pandemia (come prima l’immigrazione) è sembrata spesso più lo sfondo di una rappresentazione politico-mediatica che la vera posta in gioco. Sembra questa l’essenza della strategia di Rocco Casalino, capo della comunicazione di Palazzo Chigi, l’ingegnere venuto dai reality tv, a cui Conte si è convertito forse per tenere a bada nel suo primo governo Di Maio e Salvini. Per non essere il vice dei suoi vice. A offrire la prova dell’affermazione della politica come performance sono stati alcuni presidenti di Regione (Fontana, Zaia, De Luca) e alcuni sindaci (il sindaco di Messina Cateno De Luca o quello di Napoli De Magistris) che si sono subito allineati al premier per occupare lo spazio mediatico plebiscitario. L’obiettivo per tutti era interpretare in prima persona la sicurezza del territorio. La formula che li accomuna prevede l’individuazione di nemici, di condotte inappropriate, per mostrare l’evidenza di un comando e controllo locale. Governatori e sindaci volevano uscire dal cono d’ombra proiettato dal governo nazionale dell’emergenza. Volevano una visibilità autonoma. E hanno agito come attori che recitano un ruolo.

Questa scelta rivela il problema: la performance implica prima la lealtà alla propria presentazione di sé, alla propria immagine, e dopo la responsabilità verso la comunità. Tanto è vero che i governatori oscillano continuamente tra il chiudere e l’aprire, perché quello che conta non è tanto dire ciò che si dice, ma dirlo sullo schermo di tv, computer, smartphone, raggiungendo l’audience più ampia possibile. La performance è funzionale alla costruzione comunicativa di una leadership, che aspira a essere carismatica, utilizzando i codici dell’intrattenimento. La performance comporta la personalizzazione e la drammatizzazione. Siamo al trionfo di quella che il professore Giampiero Mazzoleni ha definito politica pop e prima di lui lo studioso di scienze politiche David Schultz ha indicato come politainment.

Il tacere o dire misurato di Draghi ha scompaginato questo copione. Il palcoscenico è stato drasticamente ridimensionato. Il premier ha messo in scena il team e non se stesso. La personalizzazione è stata revocata. La sua assenza però si è trasformata in una presenza che rovescia le lealtà: prima la responsabilità verso i cittadini poi (se non può evitarlo) verso la propria presentazione di sé come premier. Il suo tacere pone così l’implicito in primo piano rispetto all’esplicito: decide il fare e non lo storytelling del contagio. Dunque: il fare deve precedere il dire. Il dire deve essere trasparente. E deve rendere conto ai cittadini. In questo modo Draghi ridefinisce la stessa posta in gioco, cioè l’argomento saliente a partire dal quale assumere decisioni e valutazioni. Il rovesciamento della gerarchia delle priorità comporta il secondo cambiamento: il baricentro si sposta dai leader alle issues, ai temi e problemi sociali. La posta in gioco, infatti, è la strategia di adattamento dell’Italia all’emergenza e non la sua narrazione in diretta o il leader narratore. Contro la frammentazione della politica spettacolarizzata, il tacere o il dire essenziale del premier reimposta l’agenda del Paese.

La risposta emozionale e il declino delle passate gerarchie di senso
All’inizio dell’epidemia, c’è stata una risposta emozionale: paura e ansia sono stati i sentimenti dominanti. Da una parte la risposta emozionale ha agevolato la rapida reazione di protezione e di adattamento dei cittadini alla radicale riorganizzazione delle routine quotidiane (mascherine, distanziamento etc.). Dall’altra, la paura ha favorito un’interpretazione semplificata, rigida, polarizzata della pandemia. Paura e ansia hanno così determinato una visione del contagio incentrata sulla emergenza sanitaria e sulla dicotomia amico/nemico. Il virus è il nemico, la pandemia la guerra, gli ospedali la trincea: una rappresentazione che coincide con quella del governo e dei media. L’incertezza ha spinto i cittadini a uniformarsi alle istruzioni sanitarie e a stringersi attorno al premier Conte.

La risposta emozionale ha centrato gli individui sulla propria esperienza del virus. Ha stimolato il senso di appartenenza a una nazione chiamata a resistere. Ha favorito l’individuazione dell’altro come sospetto (il virus, i giovani irresponsabili, i runner che non rispettano le regole, i negozianti cinesi etc.). Per gli psicologi la paura è determinante per mobilitarci e per adattarsi subito a un ambiente diventato ostile. L’attivazione affettiva è anche una risorsa. Gli individui però sono stati gettati in una assolutizzazione del mondo di vita personale, in una interpretazione autoreferenziale della propria esperienza. La priorità era non infettarsi. Tuttavia paura e ansia non aiutano a mettere in campo le risorse cognitive che consentono di analizzare la situazione e immaginare soluzioni.

Dopo l’impatto iniziale, arriva il momento in cui ognuno deve compiere scelte in una condizione di ambivalenza, di conflitto. Occorre trovare un difficile equilibrio tra le diverse istanze della vita: la famiglia, le relazioni sociali, il lavoro, le richieste di precauzione e di protezione dal virus. Questa pressione ha reso necessario mediare tra il vecchio modello di relazioni pre Covid e il nuovo imposto dalla minaccia del virus. Si è come verificato uno spostamento dalla coscienza dell’isolamento a un’esperienza condivisa. Gli individui hanno cominciato a integrare nei loro calcoli il riferimento a un benessere collettivo. La connessione digitale, con l’intensa fruizione della rete e dei social, ha favorito il recupero del benessere comune come regolatore saliente del modo di sentire, pensare, agire durante l’epidemia. Il centro di attenzione si è lentamente dislocato dall’Ego al Noi. Più la risposta emozionale si attenuava, più affiorava il bisogno di ricorrere alla cognizione per esplorare e valorizzare la pluralità dei punti di vista e dei bisogni.

Per orientarsi i cittadini hanno dovuto recuperare una visione globale, sistemica del bene comune come mezzo per vincere la pandemia. Avanza un nuovo scenario in cui perdono vigore le passate gerarchie di senso, che giustifica la ripresa di ruolo dello Stato, il quale riceve una ri-legittimazione anche rispetto alle istituzioni locali. L’immagine di Draghi che nomina un generale al posto di Arcuri per il piano vaccini ne diventa il simbolo.

La direzione del cambiamento è cambiata: la de-polarizzazione
Questo processo di ripensamento si è attivato prima in alcuni settori sociali come il sistema produttivo. Le gerarchie di senso che hanno strutturato i primi anni della legislatura (i governi Conte) via via sono apparse de-sincronizzate con l’emergenza. Secondo i semiotici le gerarchie di significato conferiscono un ordine alle contraddizioni sociali, offrono una struttura condivisa del conflitto, delle posizioni e opposizioni attraverso cui riconoscersi e dentro cui agire. Offrono alla collettività un senso comune con cui orientarsi. Il Paese diviso, radicalizzato che aveva visto nascere i governi del M5S-Lega poi di M5S e Pd, si è lentamente scoperto meno polarizzato del previsto. La rivendicazione di autosufficienza da parte del governo giallo-rosso (fragile nei numeri, spesso diviso, sostenitore di politiche discusse), che puntava a rappresentare tutto il Paese in una sfida drammatica, tenendo ai margini l’opposizione, è apparsa meno persuasiva.

L’appannamento delle precedenti gerarchie di senso basate sulla contrapposizione ha provocato tra i cittadini una riduzione delle differenze. È cominciata la ricerca di soluzioni più ragionevoli, capaci di rendere compatibili opinioni e interessi diversi. Alcuni valori come la competenza, l’autorevolezza, l’efficacia sono stati recuperati. Altri sono stati virtualizzati. La fatica di una società polarizzata, divisa, ha prodotto un rimescolamento di temi e figure. Si è così innescato un generale ripensamento, che ha finito per disarticolare il frame dominante del conflitto. Si è avvertito uno smarrimento sociale, una perdita di senso. Senza accorgersene, il Paese sembra entrato in una fase di de-polarizzazione: la distanza tra identità, valori, posizioni politiche è vissuta come meno rilevante e meno divisiva. Emerge una nuova moderazione?

 È presto per dirlo, ma la quarantena ha favorito un nuovo assemblaggio di significati. Psicologi e linguisti spiegano l’importanza del mutamento nell’universo simbolico. Si tratta di un pattern di significati generalizzati, impliciti, in parte non coscienti, che vincolano e alimentano il modo in cui le persone interpretano la propria esperienza. Di fronte alla pandemia, i cittadini hanno cercato di spiegare a se stessi la situazione che vivevano. Nell’immediato lo hanno fatto secondo lo schema cognitivo che si potrebbe definire: «Sopravvivere alla pandemia”» Poi secondo uno schema diverso: «Convivere con il virus». Entrambi questi universi simbolici traducevano l’epidemia come emergenza sanitaria, che obbliga a riorganizzare le proprie abitudini quotidiane. Alla loro costruzione hanno contribuito sia le decisioni e la comunicazione del governo, sia la rappresentazione dei media incentrata sulla guerra al virus come nemico invisibile. La catastrofe sovverte l’ordine e spinge per trovare nuove gerarchie di senso. Gli schemi interpretativi familiari non consentono di rendere stabile e rappresentabile l’incertezza di ciò che è sconosciuto.

Il pericolo poi ha portato tutti in contatto con tutto. Ci ha condotti verso una zona in cui il senso non è predeterminato. Ha aperto la via a una molteplicità di nuove articolazioni del senso sociale e politico. La stessa partita a scacchi sulla crisi condotta da Renzi o il tentativo di Conte di reclutare dei responsabili in Parlamento, avrebbero potuto avere esiti differenti, se fuori del Palazzo non si fosse sedimentato un diverso sentire dell’opinione pubblica. Il sistema politico, ipnotizzato dai giochi di alleanze, di schieramenti, di ideologie, non si è accorto che fuori la direzione del cambiamento era cambiata.

La transazione sociale con l’epidemia ha provocato il passaggio dall’Io al Noi, dal bene privato al benessere comune. L’esperienza del virus ha fatto maturare nuove configurazioni di senso. Ci ha portato a elaborare storie padroneggiabili in cui collocarci. E a immaginare nuovi universi simbolici. Uno si potrebbe definire: «Ripensare il destino personale». Un secondo: «Ripensare il destino collettivo». Entrambi questi frame hanno in comune l’idea che la crisi obbliga a ridisegnare le aspettative personali e collettive. Il contagio appare come un punto di svolta, che costringe a ridefinire il futuro. Sanità, economia, società, politica, lo Stato, tutti sono chiamati a riconfigurare relazioni, scopi, struttura morale pubblica. Con un sentimento nuovo: occorre cooperare per riuscirci.

Il dopo non può essere come il prima
Questa nuova sensibilità si è fatta largo innanzi tutto tra i ceti produttivi. Nei mesi del contagio e del lockdown, è emersa un’economia dello shock. Le aziende inserite nelle catene di valore internazionali ed europee, che avevano investito sull’innovazione, hanno limitato i danni e anzi hanno posto le premesse per un’ulteriore crescita. Nel 2020 l’export è cresciuto del 3,3% rispetto al 2019. A essere penalizzate sono state le imprese più piccole, che agiscono sul mercato domestico, che hanno innovato poco. I distretti produttivi hanno visto comparire nei bilanci il valore dell’Europa, le opportunità della mondializzazione.

Hanno riconsiderato come cittadini e come imprese ciò che ha importanza. I territori si sono resi conto che non è tanto l’identità a definirli, quanto il sistema di relazioni sociali, come sosteneva il prof. Trigilia, al cui centro vi è il legame sociale della comunità, la sua difesa, che influenza l’identità. L’identità è sempre più in funzione delle relazioni. Il legame sociale è locale, ma connesso con il mondo. «Il dopo della pandemia non potrà essere come riaccendere la luce dopo una interruzione di energia», ha osservato nel suo discorso in Parlamento Draghi. Ma la società sembra già persuasa che il dopo non sarà «come prima».

I segnali sono arrivati nella disattenzione generale: in piena pandemia i metalmeccanici hanno firmato un contratto di lavoro che i giuristi valutano come innovativo e significativo di nuove relazioni industriali, archiviando lo stereotipo degli operai in perenne conflitto (perdente) contro padroni reazionari. Sindacati e imprese hanno firmato un protocollo altrettanto innovativo sulla sicurezza nelle aziende. Confindustria e sindacati stanno trovando accordi per la vaccinazione dei dipendenti e delle famiglie in fabbrica. La Cgil di Maurizio Landini e in generale il sindacato mandano segnali d’innovazione nella tutela dei diritti, scavalcando la sinistra.

Così buona parte della società ha riconosciuto la voce di Draghi in Parlamento come simile alla propria voce. È stato un riconoscimento reciproco: quello dal basso maturato nelle relazioni e nelle prassi sociali della quarantena e quello dall’alto concepito dal vertice istituzionale. Il governo Draghi appare una soluzione autorevole non solo per la qualità della persona, ma perché corrisponde al mutato orizzonte di aspettative dei cittadini, alla loro diversa esperienza e condizione psicologica. L’Italia rischia di uscire dal gruppo delle prime dieci nazioni industrializzate al mondo e di scivolare verso la periferia della globalizzazione, con drammatiche conseguenze sull’occupazione e sul reddito delle persone. Una decadenza che avrebbe riflessi sui più grandi paesi Europei, dalla Francia alla Germania. Una pesante questione sociale, cresciuta nei mesi scorsi, rischia di fare esplodere le diseguaglianze e la rabbia. L’epidemia, con la sua alta percentuale di vittime e l’arrivo delle varianti, mostra i ritardi, le carenze di un Paese che non ha fatto i conti con la modernizzazione.

Draghi sembra sincronizzato con questo ripensamento. E con la stanchezza diffusa verso promesse disattese. Il ripensamento italiano si inserisce all’interno di un ripensamento europeo, che ha congelato la dottrina dell’austerità e varato il Recovery fund. A sua volta il nuovo profilo dell’Europa andrebbe connesso al ripensamento americano. Il presidente Biden delinea la risposta strategica dell’occidente alla sfida globale in atto con i paesi autoritari, Cina e Russia ma anche Turchia o Ungheria, che hanno sostenuto di poter gestire meglio la pandemia sul piano sicurtario. Le democrazie occidentali non possono perdere la sfida del virus, pena il rischio di mettere in questione il loro assetto democratico, come ha dimostrato lo sfondamento populista (Brexit e Trump).

Il messaggio del silenzio: il significato è l’azione
Il tacere o dire essenziale di Draghi, quindi, rassicura i settori sociali che hanno riconsiderato il regime di senso dell’emergenza e avvertito che il bene comune, che comprende lo Stato, conta per vincere l’epidemia. Perché riduce l’incertezza e presagisce politiche sistemiche per le vaccinazioni e per l’economia. Non possiamo sapere se Draghi avrà successo, ma gli italiani sembrano convinti che è nell’interesse di tutti che succeda. La risposta emozionale iniziale è stato il modo con cui i cittadini hanno dato senso al loro mondo percepito come complesso, insicuro. Un mondo fuori del proprio controllo e della possibilità di rappresentarlo con fiducia. In fondo, il nemico dà un senso all’esperienza. Il ripensamento ha aperto un orizzonte di cambiamento nel quale emerge la risonanza tra ciò che Draghi rappresenta e il diverso orizzonte di aspettative della popolazione.

Il nuovo premier, ad esempio, sembra rivalutare il ruolo dei corpi intermedi (sindacati, associazioni imprenditoriali, ambientalisti, volontariato) e questa sensibilità sembra corrisponder alla percezione degli italiani. I corpi intermedi, rappresentano il luogo dove i mondi vitali delle persone e dei soggetti collettivi incontrano le istituzioni. E se finora la comunicazione aveva investito sulla disintermediazione, Draghi sembra volere re-intermediare e costruire su basi differenti le logiche politiche e comunicative.

Lo specchio di Draghi nel quale il Paese si riflette ci dice che il futuro si può ancora pensare e può ispirare il presente. La pandemia dovrebbe diventare il laboratorio in cui cittadini e istituzioni danno vita a nuove pratiche sociali e nuove politiche che aiutino le persone a interiorizzare l’interazione virtuosa tra dimensione individuale e collettiva dell’esperienza. Il virus ha destabilizzato la società, non l’ha distrutta. Il governo e la politica non sono chiamati ad annunciare contenuti con lo storytelling, ma progettare e realizzare politiche e pratiche che incorporano questi contenuti, per esempio la salvaguardia della vita dei cittadini e l’equità sociale. Sullo sfondo della nuova moderazione che sembra delinearsi, forse questa è la via per ricostruire la fiducia. Il messaggio del silenzio è: il significato è l’azione.


Per approfondire

  1. Watzlawick, J.H. Beavin, D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio 1971 (1967).
  2. Mazzoleni, A. Sfardini, Politica pop, Il Mulino, 2009.
  3. Schultz, Politainment: the ten rules of contemporary politics, Teoklesia, 2011.
  4. Mancini, La posta in gioco, Carocci, 2003. In particolare vedere: R. Marini, Tra cronaca e politica: l’agenda dei media in campagna elettorale.
  5. S. Lazarus, Emotion and adaptation, Oxford University pfress, 1991.
  6. Salvatore S. T. Mannarini, E. Avidi, F. Battaglia, M. Cremaschi, Forges Davanzati, G.A.Veltri, Globalization and demand of sense and enemization of the other, Culture & Psychology, 25 (3), 2019.
  7. Di Maria, Psicologia per la politica, Franco Angeli, 2005.
  8. Galli, Sorpresa, lo Stato fa politica, La Repubblica, 4 03 2021.
  9. Salvatore, V. Fini, T. Mannarini et al., Symbolic universes in time of (post) crisis. The future of European societies, Springer, 2019.
  10. Venuleo, O. Gelo, S. Salvatore, Fear affective semiosis and management of the pandemic crisis. Clinical Neuropsychiatry, 17 (2), 2020.
  11. Trigilia, Le subculture territoriali, Feltrinelli, 1981. Dello stesso autore vedi anche: Grandi partiti e piccole imprese: comunisti e democristiani nelle regioni ad economia diffusa, Il Mulino, 1986.
  12. Massagli, Metalmeccanici, un rinnovo che supera l’inconcludenza della politica, Bollettino Adapt 1, 2021. M. Tiraboschi, Ccnl metalmeccanica, un cambio di passo per le relazioni industriali, Bollettino Adapt, 1,2021.
  13. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, 1986 (1979).

Leggi anche

Are you sure want to unlock this post?
Unlock left : 0
Are you sure want to cancel subscription?
-
00:00
00:00
Update Required Flash plugin
-
00:00
00:00