Il calcio senza tifosi non è calcio

Giorgio Simonelli

Nel 1967 Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares pubblicarono un libro, Cronicas de Bustos Domecq edito in Italia nel 1975 da Einaudi con lo stesso titolo tradotto alla lettera.

Bustos Domecq, con un artificio borgesiano ne risultava l’autore, come era già accaduto in altre occasioni.  Ma non è di queste finzioni letterarie che vogliamo parlare. Tra le varie cronache vissute e narrate da Bustos Domecq una si intitolava Esse est percipi, riprendendo la celebre massima latina cara al filosofo empirista George Berkeley. Il narratore protagonista si trova di fronte a uno strano fenomeno: la scomparsa dalla sua sede abituale a Buenos Aires del monumentale stadio River. Inizia così un’indagine che lo porta a consultare Tullio Savastano, il presidente del club Riserve Juniores,  che gli rivela l’arcano: «Non esiste punteggio, né formazioni, né partite, gli stadi cadono tutti pezzi. Oggi le cose succedono solo alla televisione o alla radio; l’ultima partita di calcio è stata giocata il 24 giugno 1937. Da quella data il calcio, come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, orchestrato da un uomo solo in uno studio o interpretato da attori in divisa da gioco davanti al cameraman».

Forse il 1937 è una data un po’ troppo anticipata per segnare questa scomparsa del calcio giocato e visto dal vivo. E forse lo è anche quel 1967 in cui Borges e Bioy Casares la profetizzarono nell’ambito del loro scetticismo cosmico. Insieme al calcio, infatti, Savastano rivelò a Bustos Domecq che «anche la conquista dello spazio è una coproduzione televisiva statunitense-sovietica» e alla preoccupata domanda dell’investigatore «ma allora nel mondo non accade nulla?» la risposta, data con tipica flemma inglese, fu un semplice e conclusivo «ben poco».

Ma ciò che nel 1937 e nel 1967 poteva essere il frutto dell’immaginazione di grandi scrittori di storie fantastiche, nell’anno della pandemia rischia di diventare una situazione molto concreta, per nulla misteriosa, posta sotto gli occhi di tutti. In attesa di vedere cosa accadrà quando anche il campionato inglese, spagnolo e italiano ripartiranno, quello che finora abbiamo visto, le partite della Bundesliga giocate a porte chiuse esclusivamente a beneficio dei telespettatori hanno proposto uno spettacolo assurdo. Annunciate come il toccasana per porre fine al digiuno degli appassionati, descritte come un grande successo e la soluzione ai problemi economici del sistema, hanno lasciato un’impressione di finzione molto vicina a quella del «genere drammatico interpretato da attori» evocato dal racconto di Bustos Domecq. Nel silenzio, che più che mai in questo caso ha senso definire assordante, nel vuoto degli spalti che proprio in Bundes sono di solito gremiti e particolarmente colorati, il momento iniziale dello scambio di auguri e saluti ha perso ogni ritualità, i contatti di gomito in sostituzione degli abbracci dopo il gol e al termine della partita hanno sfiorato il ridicolo e, alla fine, è parso che neppure gli attori chiamati a interpretare la loro parte, i calciatori, ci credessero davvero.

Confesso che da tifoso in astinenza, appassionato di calcio, della intrinseca bellezza del gioco, estimatore per tanti motivi del campionato tedesco, dopo dieci minuti di quella che mi sembrava una parodia del calcio, non ho potuto resistere al senso di desolazione e ho messo mano al telecomando. Su un altro canale della stessa emittente andava in onda la centesima replica della semifinale Germania-Italia dei mondiali del 2006, commentata dai suoi protagonisti. La conoscevo a memoria, sapevo ovviamente l’esito finale e anche il susseguirsi delle azioni, non c’era nessuna sorpresa, nessuna emozione che non fosse già vissuta e prevedibile; ma era una partita vera.

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