Il Cocoricò di Riccione un museo? Non scherziamo

Maria Letizia Paiato

After the orgy #2

Alla fine di marzo scoppiava la questione sugli NFT e proprio per Pagina 21 avevo affrontato l’argomento scomodando Jean Baudrillard arrivando, provocatoriamente, a sentenziare «la morte dell’arte, così come quella dei Musei. O almeno della loro forma tradizionale». Scrivevo: «Non basta conservare, valorizzare e mostrare. Ciò cui sono chiamati i Musei del futuro è il riappropriarsi di una funzione sociale e politica. Una funzione che metta al centro la ricerca per dare e creare contenuto ai propri contenuti».

Forte di questo pensiero, la notizia della nascita del MUDI, MUseo DIscocratico, un museo dentro il Cocoricò di Riccione, non mi lascia indifferente. In particolare tocca nel profondo il senso di una rigenerazione del luogo che si propone di mettere in dialogo il mondo dei club e quello della cultura. E qui, forse, iniziano i dolori.

Per cominciare è doveroso richiamare alla memoria almeno una delle varie definizioni date alla parola cultura. La più convincente e completa, a mio parere, quella di Marco Aime, quando in Ciò che noi siamo. Manuale di antropologia (Loescher Editore, Torino, 2012) scrive: «le relazioni, con quelle che gli individui instaurano con il loro ambiente […] sono quelle che nel loro insieme chiamiamo cultura, ma sarebbe ancora più appropriato parlare di culture, al plurale». Qualche passo più in là precisa: «Le culture sono dei recinti aperti, in qualche modo ci danno il senso del limite del nostro gruppo di appartenenza, ma da quel recinto possiamo uscire e rientrare, o andarcene definitivamente, così come possono entrarvi altre persone e portare con sé nuovi elementi, che arricchiscono la nostra cultura. Perché la storia umana è fatta di incontri e nessuna cultura è davvero pura. Le culture vivono grazie alla trasformazione continua…».

Se abbracciamo il concetto di cultura/culture così come reso comprensibile da Aime, accettiamo di conseguenza la sua trasformazione. Se a quest’ultima parola diamo il senso di cambiamento, allora, parafrasando Montagne si «sarà insegnato agli uomini a morire e di conseguenza a vivere».

 Il risultato di questo semplice ragionamento ci porta al principio di questo articolo. Il MUseo DIscocratico di Riccione è il funerale del Museo tradizionale. Ora bisogna vedere però se per vivere ci sono i presupposti di ricerca capaci di dare e creare contenuto ai contenuti e su questo possiamo certamente permetterci di essere profondamente critici.

Partiamo dall’inizio. Il Cocco, chiuso nel 2019, ha lanciato un crowdfunding per la sua ristrutturazione e simultaneamente per lanciare il MUDI. Dalla piattaforma produzionidalbasso.com a oggi la cifra raggiunta ammonta a € 97.777,00 sui € 449.000,00 richiesti. Su soundwall.it, in un articolo del 26 maggio 2021 e titolato Cocoricò: ok, ma così anche no, Damir Ivic, giustamente, si chiede se: «il Cocco è effettivamente un patrimonio di tutti, rappresenta davvero una storia unica (che sarebbe bello recuperare, valorizzare, riattualizzare)», valutando, infine, «non male l’idea di chiedere una specie di “azionariato popolare” via crowdfunding per dei progetti specifici e […] a base culturale…».

Tuttavia, nello stesso articolo l’autore nell’analizzare lo slogan Cocoricò all over the world, con puntatine prima a Londra e poi a Cannes (puntuali immagini in Photoshop) sobilla nella sottesa fascinazione del messaggio la nostalgia per gli anni ’90. Nostalgia sì ma della loro forma peggiore.

Gli si può dare torto? No, non si può. In effetti, così come mi ha ricordato un amico artista, non si può fingere che prima di tutto il Cocco è stato un business che senza troppo preoccuparsi di aspetti etici, metteva sotto gabbia uomini, donne e transessuali come animali in uno zoo. Pare evidente che il tema dell’inclusione avesse ben poco a che fare con quel sistema culturale che oggi s’intende tutelare, ma soprattutto richiamare alla memoria. Dall’altra parte tuttavia, non è quel modello svilente e generalista che bisognerebbe guardare, quanto piuttosto a quel triviale trasformato in sofisticato (Ivic) vero nodo di cambiamento all’epoca e perché no anche di adesso?

Ancora.  Posto che siamo tutti ben lieti dell’ipotesi di un nuovo museo lungo l’Adriatico – ricordiamo qui che la costa gode di un sistema musei piuttosto recente. Da sud a Nord incontriamo a Polignano a Mare (Bari) la Fondazione Museo Pino Pascali, il Macte a Termoli, inaugurato nel 2019, l’Imago Museum aperto di recente a Pescara – che ci vogliamo fare veramente con i contenuti culturali – insisto – del Cocco?

La cosa non può essere lasciata al caso. Non credo che per rinfrescare il Tempio si possa mettere dentro di tutto e di più alla rinfusa. Si legge, nelle varie interviste rilasciate a più testate da Mike Pagliarulo del collettivo Unfollow Advertising e direttore artistico del MUDI la volontà di valorizzare i giovani talenti e tutti i linguaggi possibili e immaginabili, dalla fotografia al cinema, dalla video arte all’NFT, dalla pittura alla scultura e via dicendo.

Diamo allora più coerentemente alle cose il nome che ha. Così impostato, almeno nelle intenzioni, tutto questo ha il sapore di una riduzione del concetto di arte a mero spettacolo, decoro, scenografia, intrattenimento. Chi ha idee si faccia avanti sotto l’egida della sperimentazione. Allora, dicevo, diamo alle cose il nome che ha e che certamente non è Museo, in questo ipotetico progetto, fra le altre cose, parola decisamente desueta, che sa di vecchio, che sa di morte. Che nome dargli? Non lo so ma certamente la presunzione nell’affermare di offrire arte senza che le persone la chiedano, di mostrarla a prescindere immaginando che questo possa essere un passo vincente di avvicinamento alle nuove generazioni, mi pare quanto di più aggressivo si possa immaginare, fallimentare sul nascere tanto sul fronte inclusività quanto su quello dell’interattività. L’operazione ha il retrogusto di un marketing ben congeniato che tenta di ripulirsi con la parola cultura buttando fumo negli occhi ai più.

Ricordiamoci allora cosa ha scritto Marco Aime: «la storia umana è fatta di incontri».

Senza questi quella trasformazione continua di cui vivono le culture difficilmente si mette in moto. Amici del Cocco: aprite quei recinti, portate fuori e non dentro, perché per riappropriarsi di una funzione sociale non bastano le belle parole.


Ringrazio per gli spunti e i suggerimenti l’amico e artista Andrea Amaducci, così anche per la segnalazione dell’articolo di Damir Ivic.
L’opera che accompagna l’articolo è di Andrea Amaducci, The Armchair I Love, scultura polimaterica, 100cm x 87cm x 93, 2018. Courtesy l’artista

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