I quattro canoni di Ivan V. Lalić

Stevka Šmitran

Ci sono capolavori letterari che hanno un legame inscindibile con i luoghi dove sono stati pensati. È il caso dell’ultima opera I quattro canoni del poeta serbo Ivan V. Lalić (Zagabria, 1931 – Belgrado, 1996), che racchiude l’intera sua creatività e pone il suo verso tra le forme più alte della poesia del Ventesimo secolo. Trentenne, già affermato poeta, Lalić fu nella delegazione che nel 1961 accompagnò lo scrittore Ivo Andrić a Stoccolma, a ricevere il premio Nobel per la letteratura.

Nel 1995, davo alle stampe la mia l’Antologia della poesia della ex Jugoslavia, traduzione e cura della poesia divisa della Jugoslavia e delle neonate nazioni, il più difficile lavoro di sempre, dove avevo incluso il Requiem per la madre di Ivan V. Lalić che racchiude fedeltà e attitudine poetica di inconfondibile grazia.

Sulla tomba della madre, il figlio ascolta il suo racconto, frammenti di vita vissuta insieme, struggenti parole che solo lei poteva dire. È un lamento dolente per aver lasciato il figlio adolescente di cui sente e riconosce i passi. Il figlio non pronuncia parole, non dice, ascolta solo e questo appartiene ad una educazione rimasta intatta. Non credevo si potesse aggiungere ancora altro dolore a quello devastante provocato dalle guerre balcaniche degli anni Novanta del Ventesimo secolo.

Nell’autunno del 1995 Lalić riceve a Pianella, un comune vicino Pescara, il premio Rosone doro che vantava un prestigioso albo d’oro di vincitori come Giorgio Bassani, Evgenij Evtušenco, Ernesto Sabato, Mario Luzi, John Osborne.

Durante la premiazione Lalić fa il discorso sull’Ode alla nazione serba di Gabriele dAnnunzio che già nel 1916, a solo un anno dalla pubblicazione italiana, fu tradotta in serbo dal giovane poeta Milutin Bojić. L’evento letterario ebbe una grande risonanza sulla stampa nazionale nonché su quella serba.

Ebbi in dono il primo Canone che Lalić aveva scritto allinizio di ottobre, prima del suo viaggio a Pescara. Era un progetto che aveva in mente dal 1972. Si rifà a Giovanni Damasceno (Damasco dopo il 650 – San Saba, presso Gerusalemme 749), di famiglia araba di fede cristiana, teologo, dottore della Chiesa e poeta, redattore del canone, forma poetica solenne. La narrazione del canto è al presente, descrittiva ed emozionale, autentica e densa di accadimenti che sta vivendo: «Adesso è buio nella stanza, ottobre sul terrazzo», per poi proseguire con un verso in italiano: «Vergine madre, figlia del tuo figlio».

Nei nove canti del primo Canone si percepisce una scrittura di cui il lettore entra in possesso da subito: un ottobre di malinconia con sprazzi di brezza soave e conforto della preghiera alla Madonna che ricorda «quel fugare devoto che c’è in noi», per dirla con Kierkegaard.

Un testo infrenabile in cui l’attenzione del poeta è rivolta  all’«imperfezione» umana, una cifra nota di Lalić  che rende gloria alla Madonna.

 Dopo il primo Canone, il locum italicum ha fatto da sfondo alla fertile scrittura e ha contribuito a portare a compimento l’idea primigenia del poeta. In una lettera a me indirizzata, scriveva: «In fondo penso che quelli nostri giorni italiani sono stati un forte “impetus” (cit. in lat.) per finire il libro già quest’anno “in tempo presto, con fuoco” (cit. in it.) (e precisamente il 20 dicembre)”, citando l’amato Claudel che considerava la scrittura poetica “una immotivata misericordia che lo fa diventare poeta; quell’altra categoria ‘gratia gratum facies’(cit. in lat.), fa diventare santi».

Il poeta è riuscito nell’impresa. Da fine ottobre a fine dicembre del 1995, Lalić ha scritto gli altri tre Canoni, portando a compimento tutta lopera, I quattro canoni.

Da queste sue urgenti istanze, d’ispirazione tutta italiana, del «Bel Paese là dove ’l sì suona», che rimandano a Dante per contenuto, forma e tono, nasce una poesia dalla quale non mi sarei più separata.

I versi sono a mo’ di preghiera a Dio grande guerriero, alla Madonna misericordiosa e a ciò che lo circonda, a ciò che teme, materia, energia, spirito, tempo e infine, la necessità di afferrare il presente: l’inizio di ottobre a casa, nella sua Belgrado, il suo corpo a cui non fa più affidamento, mentre lo sguardo annota le minuzie e le cose che lo attraggono, come il computer con dieci gigabyte.

Lalić elabora il suo tempo e le nuove tecnologie e in tutto ciò sente di essere di passaggio e che la sua è solo parola che afferma la disarmonia del mondo e la finitezza dell’uomo.

Il tempo è già trascorso, si è prosciugato con la morte del figlio Vlajko nelle acque del mare di Venezia.

Nel II Canone, canto quarto de I quattro canoni, fa omaggio alla città di Pescara, all’Abruzzo e al Mare Adriatico condiviso tra le due sponde in storia, in lingue, in tradizioni. Un inatteso e incontenibile sentire la vita, una luce che lo sorregge, è il Lalić che si è visto al premio. Gli unici versi in cui la luce solare illumina il mondo reale, che coincide con il mondo immaginato e dove pronuncia le due parole per lui più importanti: libertà e fortuna. Le invoca e le sente come parti indecifrabili del divino:

La fortuna è sorella della libertà suddivisa
Alle illeggibili parti divine. La fortuna è quel vento
Che confonde il manoscritto leggibile dei giovani uliveti
Ai pendii d’Abruzzo, d’autunno soleggiato;
La fortuna accende le luci sulle strade di Pescara,
Lascia le tracce dei passi sulla sabbia della parte
bassa dell’Adriatico –
O, mondo di tanti popoli, ti festeggio in libertà.

Nei versi, locchio svela il nitore dellorizzonte di cui si è appropriato a sorpresa e, con stupore, lo trattiene e lo consegna ai posteri. Ai giovani uliveti Lalić attribuisce il significato di un manoscritto che diventa, nella sua lingua poetica, una certificazione perenne. E se nella poesia confluiscono musicalità, ritmo, suono, ciò significa che Pescara adriatica ha un suo primo poeta straniero, nell’età contemporanea, che la festeggia. Pescara, da luogo fisico, diventa emblema poetico di due parole che coincidono con il suo stesso essere «libertà» e «fortuna».

Si squarcia la visione del mondo immaginato, la sua parte più bella, l’Italia che aveva visitato innumerevoli volte e che ora, con Pescara, gli regala un legame profondo. Una ispirazione di grande potenza ha guidato la sua penna. Lalić, scrivendo I quattro canoni, ha saputo trasformare il dolore balcanico in letteratura universale creando un capolavoro di matrice dantesca che non avrebbe visto la luce senza il viaggio a Pescara, in quel fine ottobre del 1995. La terra abruzzese, l’orizzonte adriatico, l’inebriante stato d’animo che ne è derivato, sono stati decisivi per la scrittura dell’opera, dopo una gestazione durata più di due decenni, per srotolarsi poi, come un papiro egizio, come lo stesso Lalić scrive nella sua lettera dove afferma che la fortuna gli arriva da Pescara.

Il suo contatto con Pescara è contatto con la poesia stessa e lo dichiara con una gratitudine che è di pochi. Ha descritto i santi e gli dei che gli sono appartenuti e molto altro, a conferma che lo «spirito è indistruttibile».

Lalić si è sentito avvolto dalla fortuna, da una città, da ogni suo angolo di strada, dal suo mare. La fortuna è la città a cui affida le sue aspettative e che esaudisce il suo ultimo desiderio, poter realizzare, finalmente, la sua opera preferita, per l’appunto I quattro canoni, in un tempo breve; il tempo che si era dato per scriverla, stava per scadere.

La prospettiva si amplifica nella semina della parola e alla vista del presente, di fronte al destino datogli in sorte, preconizza una catastrofe nucleare. Il compito di uno scrittore è dichiarare per primo, ciò che crede probabile sul futuro della terra anche se il suo credo è racchiuso nel concetto dell’«imperfezione umana», sulla scia di Giovanni Damasceno.

Dopo aver lasciato che l’ultima parola si librasse nella forma più solenne, l’opera è diventata di tutti, il suo pathos, un grumo di emozioni ancora da indagare. Anche Nietzsche, tra Santa Margherita Ligure e Portofino ha pensato, come egli stesso scrive, «tutto intero il primo Zarathustra, soprattutto Zarathustra stesso: più esattamente mi investì all’improvviso».

Quello di Ivan V. Lalić non è un viaggio da Grand Tour, come lo furono i viaggi dei letterati del XVIII e del XIX secolo che hanno dato origine a opere straordinarie; qui è l’ispirazione pescarese che determina la nascita del libro.

Lalić finì i tre restanti canoni in due mesi, alla fine del 1995, e il libro vide la luce poco prima della sua morte, avvenuta il 27 luglio del 1996. Le premonizioni di un poeta non si discutono perché ci sono le opere con le quali non si smetterà mai di conversare.

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