Il giardino dell’Eden e i futuri ambienti di vita

Massimo Pica Ciamarra

Laudato si’ (2015) e Fratelli tutti (2020), per il loro essere encicliche, non hanno confini. Il pianeta però è ricco di differenze e contraddizioni, accoglie comunità e culture profondamente diverse, mentalità e credenze distinte: anche in simultanee e differenti fasi di evoluzione e sviluppo. Benché ormai molteplici reti interconnettano ogni parte del mondo, consentendo collaborazioni un tempo impensabili, diffusione della conoscenza, processi omologanti, velocità sconosciute, non è quindi pensabile che queste encicliche trovino analoghe declinazioni operative nei vari contesti. Coincidenza di principi, ma ovvie diversità nelle modalità di attuazione.

Per antonomasia luogo di straordinaria bellezza e piacevolezza, il giardino dell’Eden ospitava due persone: «sarete come Dio» disse loro il serpente spingendo a valicare un limite invalicabile. I due ne furono cacciati. Anche fuori dal giardino dell’Eden, l’arroganza umana continuò a crescere: infatti nella Genesi è anche scritto che il Signore ha detto: «confonderemo le loro lingue perché più non si capiscano».

Discendenti di chi assaporò i frutti dell’«albero della conoscenza», oggi siamo quasi otto miliardi. Per collaborare utilizziamo una stessa lingua; comunichiamo istantaneamente fra di noi; condividiamo quantità incredibili di dati. Nel loro insieme però gli uomini si comportano come un virus, più oscuro e letale del Covid.

Sapiens, da animali a déi (Yuval Noha Harari, 2011) è una sintetica storia dell’umanità: interpreta il passato, legge un percorso che sembra aver raggiunto livelli elevatissimi, anche con primi passi fuori dal pianeta, fuori dall’abituale casa comune. Abbiamo un passato, ma aspiriamo al futuro: «gli antichi siamo noi» osservava Bacone, filosofo per il quale sapere è anche potere e dominio sulla natura. Verissimo, l’accelerazione attuale è inedita ed è probabile lo sia ancor più in futuro. Sembra un gioco di parole, ma dominio e demonio hanno assonanze, non solo fonetiche.

In un mondo quindi carico di preoccupanti indicatori demografici e migratori, di diseguaglianze con trend sconvolgenti, Laudato si’ invita a prendersi cura della casa comune; Fratelli tutti invita alla collaborazione.

queste encicliche sono entrate nella nostra vita con velocità impressionante: Papa Francesco rende pubblica la prima il 18 giugno 2015; il 2 agosto Barack Obama annuncia il Clean Power Plan che impegna gli Stati Uniti a ridurre l’accelerazione delle emissioni; il 18 agosto la Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico; a dicembre COP21, XXI° Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici, raggiunge impegni concreti, nove mesi dopo ratificati da USA e Cina, quindi anche dall’Unione Europea. Poi la lunga stasi: accantonata l’era Trump, di nuovo si delineano transizioni virtuose.

Ovviamente le encicliche non sono dirette a paesaggisti, urbanisti, architetti, biologi, filosofi, sociologi, antropologi o economisti. Sono dirette a tutti: non solo a chi controlla settori della conoscenza, non solo agli «uomini di buona volontà». Invitano a mutare mentalità, a riconsiderare interazioni fra natura e artificio. Invitano gli esseri umani, unica espressione della natura dotata di intenzionalità e logica, a costruire una «seconda natura finalizzata ad usi civili» e affrancarsi dagli insostenibili processi dell’antropocene, periodo geologico di cui ormai si ha piena coscienza. Queste encicliche non riguardano solo gli aspetti fisici degli ambienti di vita nei quali si riflette ogni forma di insostenibilità. Spingono ad affrontare simultaneamente ogni aspetto. La cultura della separazione, che ancora affligge, ragiona di volta in volta sulla singola questione, mentre è sostanziale esplicitare l’indissolubile lattice di relazioni fra i fenomeni, anche quando sembrano privi di relazioni fra loro.

La casa comune è l’insieme dei nostri ambienti di vita.

Non riconoscendo a nessuna delle altre specie viventi capacità dell’agire intenzionale, riteniamo istintive le meravigliose espressioni logiche iper-sedimentate attraverso milioni di anni, emblematici gli alveari. Mentre l’intelligenza artificiale delinea sviluppi meravigliosi che stranamente crediamo di poter dominare, riteniamo «prodotti dell’intelligenza umana» la varietà dei nostri habitat. Da qui l’obiettivo di pensare ad una sorta di norme di attuazione per la cura della casa comune, da adattare ai contesti.

L’attuale è un esaltante periodo di transizione: la conoscenza non ha mai raggiunto vette e profondità così ampie, non si è mai andata evolvendo con velocità paragonabili, il suo futuro non è mai apparso così imprevedibile. Mai gli intrecci fra le vecchie categorie disciplinari hanno mostrato anacronismi così vivaci. Mai la cultura della separazione ha mostrato con tanta evidenza l’urgenza di essere abbandonata. La diffusione del genere umano è prepotente, aggressiva; ogni anno vediamo estinguersi specie animali e vegetali. 50 anni fa, I limiti dello sviluppo (Club di Roma, 1972) indicarono l’urgenza di un’economia diversa da quella di allora e dall’attuale, la necessità di ricorrere a forme di energia diverse. Ma, pur sapendo quindi che occorre invertire il processo, sostanzialmente lo si ignora.

Curare la casa comune non è tutelare o mantenere lo status quo. Presuppone conoscenza, individuazione di patologie e poi criteri di intervento che le mitighino o le annullino; che adeguino la casa comune alle esigenze dell’oggi scrutando quelle del domani. Curare la casa comune presuppone ampi coinvolgimenti: lo sottendono le analisi del Die acht Todsünden der zivilisierten Menschheit e le proposte della Déclaration des Devoirs des Hommes in rapporto ad habitat e stili di vita.

Sintetizzo in cinque punti quello che sembra basilare per le norme di attuazione:

Per avere cura, occorre conoscere
Un salto di scala nello strutturare e nel diffondere la conoscenza. La rivoluzione informatica ha creato strumenti capaci di rendere universalmente disponibili dataset apparentemente esaustivi, monitorati e aggiornati di continuo; raccogliere e strutturare compresenze di tutte le informazioni esistenti, inserendo anche quelle che non sembrano connesse fra loro perché potranno far emergere correlazioni e causalità di vario tipo. C’è necessità di codici condivisi e nuovi protocolli Internet. Questi Big Data costituiranno una sorta di Wikipedia all’ennesima potenza, in grado di contenere la memoria di qualsiasi contesto, materiale e immateriale.

Per avere cura, non basta conservare o solo manutenere
Occorre adeguare e migliorare di continuo quanto esiste: renderlo «sostanza di cose sperate», far evolvere sogni, ambizioni e obiettivi. Ciò presuppone l’educazione a ben sperare, a saper esigere, a ben domandare. Poi, con ampio e certamente difficile accordo sociale, occorre riportare a giusti valori la percentuale del PIL destinato all’habitat.

Per avere cura, ogni elemento va inteso come frammento del tutto e in simbiosi con il tutto
Ogni azione, mai chiusa in se stessa, va programmata come parte dell’insieme: dell’ambiente (nelle sue diverse manifestazioni); del paesaggio (naturale o artificiale non importa: è quanto connota una comunità); della memoria dei luoghi (legata alle stratificazioni che definiscono l’identità dello specifico contesto: quanto è nella sua storia e nella memoria). Ogni azione va quindi concepita come parte di un processo, di un sistema di relazioni magari al momento non intellegibili, ma che potranno emergere nel tempo.

Avere cura implica impegno mentale e soprattutto riequilibrio nell’uso delle risorse
Coscienti che la qualità degli ambienti di vita influenza benessere, sicurezza, rapporti sociali, serenità e felicità di ogni comunità, coloro che la guidano devono favorire partecipazione e coinvolgimenti: occorre massima condivisione nel rivedere le priorità e nel destinare alla cura della casa comune risorse opportune, decisamente maggiori di quanto oggi non sia. Da qui la necessità di trasformare gli stili di vita: l’insostenibilità di quelli prevalenti nel mondo cosiddetto sviluppato può essere mitigata solo da cultura, consapevolezza, etica. Se l’intera popolazione mondiale avesse standard analoghi ai nostri, l’overshoot day cadrebbe tre mesi prima di quanto si registra.

Avere cura va declinato diversamente nei contesti e all’interno stesso dei singoli contesti
Sono infatti immense le differenze fra i contesti industrializzati, quelli in via di sviluppo, quelli che non possono nemmeno essere annoverati fra questi ultimi. Modificare gli stili di vita assume quindi significati diversi: peraltro, specie negli ultimi decenni, anche all’interno dei contesti le diseguaglianze sono diventate insostenibili. Non bastano leggi contro gli sprechi alimentari o che mitighino consumi energetici e emissioni, norme sui rifiuti, …: occorrono politiche adatte ai contesti, forti di visioni integrate, oggi ancora decisamente rare.

 Nei singoli contesti, non è impossibile trasformare questi cinque punti in linee guida, in ottica trans-generazionale, al di là di egoismi immanenti.

Gli inviti di un’enciclica hanno valore universale. Forse è utopia, ma è non come quando si avviò la costruzione della Torre di Babele; non è arrogante né blasfema l’ambizione per ambienti di vita che capaci di essere «seconda natura finalizzata ad usi civili», giardini dell’Eden generati da cultura e intelligenza umana. «La cura della casa comune» impone di affrancarsi da modalità abituali, di agire in altra direzione per materializzare la «speranza di cose sperate».


Il testo pubblicato è  l’intervento di Massimo Pica Ciamarra al convegno Progettare, Inventare, Trovare, organizzato dalla Fondazione BioA il 20 marzo 2021 nella Pinacoteca della Certosa di Firenze.

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