Il partito delle donne non esiste. Ed è un bene

Lea Durante

Si discute da giorni della presenza numericamente poco significativa di donne di estrazione politica nel governo Draghi, della rilevanza di secondo piano dei dicasteri loro affidati, e dell’assenza di donne del PD nel Consiglio dei ministri, con relativa maldestra gestione della cosa da parte del segretario Zingaretti.

Nelle tante case e stanze di donne disseminate per l’Italia è difficile affrontare questo tema, le sue implicazioni, la comunicazione che ne viene proposta. Da un lato, anni di lotte nei movimenti, nelle sedi legislative, nei partiti, nelle amministrazioni e nelle aziende per sollecitare l’equilibrio numerico tra i sessi nelle posizioni apicali: norme pro-attive, quote, dispositivi, organismi dedicati, risoluzioni. Dall’altro il dubbio, affacciatosi più volte nel corso degli anni, ma in alcuni casi, come questo, troppo tangibile per essere eluso, di una battaglia che paghi all’utopia dell’ecumenismo femminile il prezzo amaro della genericità, e perfino, paradossalmente, dell’intelligenza col nemico.  Dove il nemico, sia chiaro, non è incarnato in nessuna persona, ma è la persistenza dell’ordine patriarcale declinato in forme diverse.

Il dibattito sulla questione è stato fatalmente ricondotto a una faccenda di posti da un documento della Conferenza delle donne democratiche, tutto autocentrato e privo di qualunque valutazione politica nei confronti del nascente, ormai nato e battezzato, governo. Un documento che, preso atto della difficoltà nel Pd di elevare ai seggi ministeriali le dirigenti di partito, rilancia di fatto con la richiesta di altre posizioni. E la chiude lì.

Sul piano del discorso pubblico si è trattato di un assist per il Partito democratico, grazie anche all’aiuto di diverse note commentatrici che hanno scartato lateralmente, concentrando l’attenzione generale intorno alle carenze del partito, unicamente sul problema delle mancate scelte femminili, col risultato di distrarre in buona misura il pubblico d’opinione, formato da elettori, elettrici e simpatizzanti peraltro molto favorevoli a Conte fino a poche ore prima, dalla domanda invece fondamentale: perché far cessare un’esperienza di governo con M5S e Leu e avviarne una con Lega e Forza Italia? Quali sono gli interessi che questo governo difende?

Ogni risposta sarebbe stata legittima, è ovvio, ma certamente se una componente interna a un partito politico, quale quella che si riconosce nella Conferenza delle donne, e cioè le donne stesse, verga un documento in occasione della fine di un governo e dell’inizio di uno nuovo, mi pare che  parole di riflessione più generale, un’analisi che affrontasse il quadro d’insieme, i nodi economici, sociali e politici della fase in atto, guardata ed esaminata in tutti i suoi aspetti da un punto di vista di genere, sarebbero ben altro e più opportuno contributo al momento, e garantirebbero un livello di interlocuzione più alto, più efficace, meno corporativo.

Non ricordo più quand’è stato il momento in cui il femminismo come pensiero altro, chiave di rottura epistemologica di un’idea di mondo monosessuata, è esploso nella galassia del multiculturalismo come un frammento di materia insieme agli altri, fluttuando alla ricerca del suo posto nell’ordine cosmico delle forze in equilibrio, trasformandosi in spazio di riconoscimento nel conflitto orizzontale per i diritti. Non tutto il femminismo, è chiaro. Ma una parte sì, un epigono stinto, un mito a bassa intensità, un colore rosa. E così, progressivamente, vittima anch’esso del mito del politically correct, ha iniziato a credere che conquistare posizioni sia la stessa cosa che prendere posizione, cadendo in un gioco di parole che è un equivoco mortale. A prescindere dalle culture, dalle storie, dalle ideologie non esiste una visione del mondo, e perciò l’illusoria alleanza delle donne di tutte le provenienze per gli interessi comuni, come la presenza nelle istituzioni, non fa massa critica, riproduce l’ordine esistente con altri attori.

E se la presenza delle donne ai tavoli non serve a rovesciarli ma ad apparecchiarli, il gioco non vale la candela. Da battaglia politica d’avanguardia, densa di contenuti precisi sul tema del corpo, della libertà, della laicità e della democrazia sostanziale, l’accesso delle donne nei luoghi della decisione, a prescindere dalle idee di cui sono portatrici, rischia di diventare un assoluto kantiano per il femminismo che resta. Me ne dispiace, sputare solo su Hegel mi sembra ingiusto. Agganciare le battaglie alle proposte e alle idee mi sembra necessario.

Prova ne è l’incertezza che attraversa e percorre in queste ore collettivi, gruppi, semplici femministe. Dopo qualche giorno di empatico allineamento alla lettura «il governo è buono, ma il suo problema è avere poche donne del PD», la riflessione si fa più esigente, chiama in causa certi forzati processi di assorellamento fra la iperconservatrice in materia di famiglia Marta Cartabia e una paladina dei diritti allargati come Monica Cirinnà, o fra le sostenitrici dei Centri antiviolenza come presidio di protezione delle donne abusate e picchiate e Giulia Bongiorno.

Come donna mi domando se dovrei sentirmi lusingata e partecipe di una vittoria storica qualora Giorgia Meloni dovesse sedere fra pochi mesi sullo scranno di Presidente del Consiglio, grazie anche al lavoro culturale svolto da tante donne di orientamento opposto al suo, e alla visibilità e al credito elettorale che la situazione presente le permetterà di maturare. E mi rispondo no, senza esitare.

Mi chiedo se sia un guadagno alla causa della parità il ritorno di Maria Stella Gelmini, autrice di una riforma dell’Università contro la quale mi sono battuta insieme a tante altre persone più di dieci anni fa, e che oggi ha fra le mani la delicata questione dell’autonomia regionale differenziata, che sicuramente subirà una notevole accelerazione in chiave antimeridionale. E mi rispondo di no, ancora.

Se poi combino Gelmini e Stefani penso a un futuro di diritti differenziati, a una lettura segregazionista e compassionevole della disabilità, tutta di marca leghista, in un quadro dove l’integrazione, a tutti i livelli, non è l’obiettivo da raggiungere. E ancora mi dico no, non è la parità la partita che vedo in gioco.

Non posso certo barattare la parità di genere con la disparità territoriale, vorrei essere intersezionale sempre, valutare le questioni nel loro insieme, nella loro complessità. Il contesto d’azione di questo governo è tale da aver permesso nuovamente a qualcuno della sua maggioranza di fare distinguo fra le donne portatrici di natura e gli uomini portatori di storia. E siamo solo alle prime battute.

Dobbiamo occuparci di tutto, immaginare una nuova generazione di donne figlie della spoliticizzazione di massa e invece portatrici di politica, mettere in campo una pratica pervasiva di ridisegno delle priorità contro le compatibilità, di messa in discussione dei luoghi e dei ruoli: non soltanto doverli raggiungere, ma anche volerli rifiutare. Liberare Penelope dalla tela per andare alla guerra e accogliere il cavallo di Troia non è uno scambio in attivo. Bisogna sottrarsi alle operazioni di risciacquo, alle crociate, a certe strade maestre date per scontate una volta per tutte.

Il partito delle donne non esiste, lo sapevano già le nostre antiche madri: unite temporaneamente nella comune battaglia per il voto, ma le une, liberali, convinte della necessità di riconoscerlo per diritto di natura, per l’uguaglianza di tutte le persone; le altre, socialiste, persuase della sua necessità storica, legata al ruolo produttivo delle donne nella società.

Due visioni che non si confondevano, non si mescolavano, come accade invece di vedere in certi improbabili rendez vous letterari che accostano, per esempio, Margareth Thatcher e Rosa Luxemburg, due donne che hanno vissuto per ideali opposti, e senza alcun tratto in comune oltre la vagina.

Si apra per le donne una fase di larghissimo e vasto dibattito sugli equivoci del potere, sull’accesso, sulle diverse e alternative forme di partecipazione collettiva, di esercizio della potenza simbolica e materiale, e sulla politica come scontro dialettico di visioni e di interessi, a partire  proprio dal caso tanto singolare di questo governo e delle sue pretese di pace terrificante.

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