La solitudine dell’intellettuale totale. Sullo sguardo di Leogrande

Onofrio Romano

Bisogna partire dalla fine. Dall’ultimo volume curato da Leogrande, L’altro Risorgimento.

Emerge lì per la prima volta, in una sorta di testamento involontario e ben dissimulato dietro gli scritti e la figura di Carlo Pisacane, la visione politica di Alessandro, quella che lui si guardava sempre, accuratamente, dall’anteporre alle realtà esplorate. Ne aveva pudore. E credeva fosse più importante raccontare il mondo che i propri posizionamenti politici. Ma lì stava Leogrande: dalla parte del Risorgimento sconfitto, di quella declinazione socialista, radicalmente democratica e anti-autoritaria, che si è inabissata nel corso della storia italiana.

Quell’idea per cui nessuna rivoluzione è possibile se essa non mette al centro la questione sociale, ossia la liberazione delle persone dalla miseria, e nessun reale cambiamento può maturare se il popolo non ne prende le redini, assumendosene la responsabilità diretta. La versione risorgimentale che ha vinto, al contrario, vede la libertà come un atto di octroi: al meglio, una concessione dall’alto frutto del volontarismo di una élite illuminata, di rivoluzionari di professione; al peggio, una ristrutturazione interna ai poteri egemoni che adegua ai tempi i propri esercizi di dominio. Non è un caso che Cavour si congratulò con i Borboni – esempio prodromico di convergenze parallele – per la brillante repressione della spedizione di Sapri, in cui Pisacane cadde per mano di quello stesso popolo che intendeva liberare. Il vizio di origine nel processo unitario ha effetti a lunga gittata: la sconfitta di una linea di modernizzazione partecipante e attiva ha ceduto ad un impasto in cui il vecchio non è mai morto e il nuovo ha preteso di imporsi dall’alto (per fini tutti suoi) senza mai toccare terra. Questo doppio nodo strangola il Sud e incarta i meridionali in una logica di modernizzazione strutturalmente passiva.

Ma non è un caso che la visione politica emerga a valle della biografia intellettuale di Leogrande. Non è il frutto di una costruzione aprioristica, a tavolino, speculativa, mossa dai fervori utopici della gioventù. A monte vi è un trauma. Le tragedie tardonovecentesche che hanno interessato i nostri dirimpettai adriatici (le guerre balcaniche, l’implosione dell’Albania post-comunista) sono state un battesimo di fuoco per una parte, ancorché minuscola, della nostra generazione.

E qui s’impone una digressione, quasi personale. Leogrande era un ragazzo prodigio. Se è vero, come sostiene Mannheim, che una generazione si contraddistingue non per coincidenze anagrafiche, ma per la condivisione di eventi che creano un comune modo di dare senso al mondo, allora occorre riconoscere che, intellettualmente, Alessandro non appartiene alla generazione dei nati alla fine degli anni settanta, ma a quella di almeno un decennio prima – circostanza che lo ha posto da subito fuori tempo.

Leogrande ha cominciato a frequentare l’Albania quando era ancora adolescente, al seguito delle associazioni di volontariato animate dal padre. Quell’esperienza è un segno indelebile. Fukuyama sostiene che la generazione che ha fatto il sessantotto ha dovuto inventarsi di sana pianta un’epica politica rivoluzionaria poiché non riusciva a dare un senso al benessere acquisito. Si è auto-confezionata un simulacro di quella storia grande e feroce che la generazione precedente aveva invece vissuto realmente combattendo nella resistenza al nazifascismo e dando così un senso alla rinascita sociale. Noi non abbiamo dovuto inventarci niente: nel pieno della nostra bildung, pur non essendovi coinvolti in prima persona, abbiamo assistito al ritorno della barbarie, della pulizia etnica, degli stupri, dei genocidi, dei cecchini, degli scontri a fuoco, dei campi di concentramento, della fame nera. Quella esperienza ha forgiato indelebilmente alcune sensibilità comuni.

Innanzi tutto, sul piano intellettuale abbiamo sviluppato la coscienza che le reversioni storiche cui assistevamo erano il frutto, per l’appunto, di un lungo ciclo storico di modernizzazione forzata, mai digerita né vissuta come una storia che ci appartenesse per davvero. Scoprivamo di essere la periferia subalterna della storia altrui. Da questo punto di vista, quel che accadeva nei Balcani, lungi dall’essere l’espressione di una specificità incommensurabile, costituiva uno specchio aumentato dei nostri stessi mali.

Sul piano dell’atteggiamento generale nei confronti del mondo, poi, abbiamo maturato una strutturale disillusione, una sorta di indisponibilità a stare a nostro agio nella società dello spettacolo, nei facili entusiasmi per le primavere giulive, nelle retoriche dell’auto-sviluppo, restando devoti solo alle pieghe del reale e alle sue zone d’ombra. Con questo atteggiamento, la nostra generazione si è auto-espulsa dalla gestione del presente, inabissandosi come Pisacane. Ci siamo ritagliati il ruolo di osservatori impotenti, testimoni di un tempo cui siamo al fondo estranei. Non va dimenticato che a dispetto degli onori che gli vengono riservati ora che non c’è più, in vita Leogrande ha dovuto faticare parecchio e senza mai una tregua per sbarcare il lunario. E questo ci introduce ad un altro aspetto della personalità intellettuale del nostro.

Tocqueville si è chiesto come mai la Rivoluzione fosse scoppiata proprio in Francia e non altrove. Uno degli elementi decisivi viene da lui sorprendentemente riconosciuto nella condizione sociale dell’intellettuale francese già nell’ancien régime. Questi è in genere a libro paga dell’amministrazione pubblica ed è quindi svincolato dalla necessità di procacciarsi le risorse per vivere. Questa condizione di affrancamento dal bisogno finisce per affrancarlo dalla realtà stessa, che egli comincia a guardare dall’alto, a distanza, come fosse un’entità virtuale. Egli trasforma la società in un gioco di società. È da questa messa a distanza che scaturisce la fantasia del capovolgimento totale, l’idea di poter rivoltare l’organizzazione sociale come un calzino. Ed è questo atteggiamento che impedisce ai rivoluzionari di professione di comprendere fino in fondo le poste in gioco reali delle loro fantasie rivoluzionarie. Il terrore, a quel punto, s’impone pressoché fisiologicamente contro i recalcitranti al cambiamento.

L’intellettuale inglese, al contrario, deve occuparsi quotidianamente della propria sopravvivenza e questo lo determina a scendere in campo, a calarsi nei meandri della vita sociale. Come il pesce che non conosce l’esistenza del mare, essendovi completamente immerso, alla stessa maniera l’intellettuale à la anglosassone non riesce a conquistare l’altezza necessaria a inquadrare il sistema nel suo complesso. In compenso, conosce benissimo le pieghe della società, gli esseri umani in carne ed ossa, la durezza del reale. Lo spazio vuoto per l’emergere di fantasie palingenetiche non c’è. Più diffuso, invece, è il desiderio di intervenire riformisticamente su singole situazioni, su specifici frame. È per questo che la democrazia in Inghilterra, senza essere l’effetto di un puntuale flame rivoluzionario, viene conquistata con gradualità nel corso di secoli e si sedimenta più solidamente nel corpo sociale.

Che cosa c’entra tutto questo con Leogrande? C’entra, poiché Alessandro è stato uno straordinario ibrido. Una sintesi virtuosa del meglio dell’atteggiamento intellettuale francese e del meglio del modello anglosassone. Sul piano esistenziale, Alessandro era sicuramente inglese. Doveva arrabattarsi quotidianamente per spuntare le risorse necessarie a esercitare il suo mestiere. Non aveva alle spalle alcuna istituzione, alcun partito. Non era organico a nulla. Ma sul piano intellettuale egli sapeva fondere come nessuno le due prospettive: da un lato la capacità di stare al piano strada, in mezzo alle cose e alle persone, così da entrare nell’unicità delle vite dei protagonisti delle sue inchieste e scandagliare ogni piega della realtà; dall’altro l’attitudine a collocare ogni frammento di vita nel sistema sociale complessivo, nel tempo e nello spazio. Leogrande era un intellettuale totale. Entità oggi introvabile, dal momento che siamo affaccendati tutti a smozzicare sterili specialismi oppure persi nel feticismo del frammento.

In questo senso, egli era del tutto fuori dallo spirito del tempo, ma proprio questa sua eccentricità gli ha consentito di essere uno dei più lucidi testimoni del suo tempo.

È difficile che questo modello possa essere oggi riprodotto poiché non ci sono le fucine culturali che possano accoglierlo e alimentarlo. Non ci sono giornali pronti a investire su questo genere di lavoro, non ci sono partiti e altri corpi intermedi dove discuterne. Le Università producono un sapere triturato da una logica nefasta di competizione interna. I social fanno poltiglia.

Il Caravaggio de Il martirio di San Matteo, in cui Leogrande si finge nella parte finale de La frontiera, raffigura fin troppo scopertamente la sua condizione di intellettuale tragico: non volta lo sguardo di fronte alla violenza di un mondo nel quale egli è completamente immerso, ma al contempo avverte tutta la propria impotenza, l’impossibilità di cambiare il corso delle cose. Egli è solo, senza il conforto di un collettivo in movimento e in questa condizione può solo testimoniare. Prestare volontaristicamente i suoi occhi al lettore, provando a rimanere lucido.

Oggi, come abbiamo detto, Leogrande è indubbiamente oggetto di riscoperta, quasi di devozione. Ma non possiamo dimenticare che in vita un riconoscimento pieno non c’è stato. La sua scomparsa prematura ha sicuramente inciso in maniera decisiva su questa rivalutazione. La sua morte appare perciò una sorta di sacrificio necessario a rilanciare uno sguardo totale sulle cose. Se è vero, come sostiene Salvatore Romeo, che Leogrande è l’esponente più rappresentativo di una nuova generazione di meridionalisti che squarcia il velo delle illusioni di una rinascita del Sud sulle ali del neoliberalismo, allora è proprio da qui che occorre riprendere il filo del suo discorso: bisogna avere il coraggio di riconoscere sotto i lustrini della nuova smartness meridionale la persistente condizione di subalternità, che si manifesta, per citare Cassano, nella schizofrenica oscillazione tra l’incubo dell’inferno mafioso e il sogno del paradiso turistico.

Sempre alla ricerca dell’autonomia. Sempre aspirando ad assumersi la responsabilità di essere liberi. Sempre dalla parte di Pisacane.

Leggi anche